Liceo scientifico G.D'Alessandro

Liceo scientifico G.D'Alessandro

venerdì 19 maggio 2017

I professori Valentina Mangiaforte ed Ernesto Romeo negli aa.ss. scorsi hanno dedicato diverse lezioni, nelle loro rispettive classi, all'analisi ed al commento del saggio di Todorov dedicato a tutte le implicazioni filosofiche, antropologiche e storiche riconducibili alla scoperta, anzi alla "conquista" europea dell'America. Le ragioni didattiche di tale scelta, le connesse, molteplici valenze formative ad essa associate, il percorso didattico seguito sono ben descritti dal collega Romeo che ringrazio per il tempo dedicato ad illustrarle così esaustivamente. Gli esiti incoraggianti di questa esperienza sono adeguatamente rappresentati dalle riflessioni di Giulia che ha particolarmente apprezzato gli spunti tematici offerti da Todorov rielaborandoli con riflessioni serie e meditate, espresse con un linguaggio ed una logica che testimoniano la maturazione di un'accattivante capacità di argomentare filosoficamente, sempre più rara nei ragazzi della sua età.

 

PREMESSA DIDATTICA

Prof. Ernesto Romeo


Lʼassegnare ogni mese agli studenti la lettura di un nuovo libro è pratica che sembra potersi giustificare anche a partire dagli obiettivi che generalmente vengono conseguiti: al di là di evidenti, per quanto mai del tutto soddisfacenti, ricadute che essa ha sul piano della qualità dellʼespressione scritta ed orale dei discenti; al di là della sua veicolazione di contenuti che ampliano in molteplici direzioni il bagaglio culturale dello studente; tale pratica costituisce soprattutto un argine allʼ«incultura del frantume».
In effetti la moderna abitudine alla navigazione online, che con lʼausilio dei link si basa, almeno per i più, sul salto continuo da una pagina allʼaltra e da un sito allʼaltro, lascia al fruitore la sensazione di aver appreso una quantità considerevole di informazioni, fornendogli in realtà solo idee vaghe e/o precocemente evanescenti; sempre che non intervengano addirittura grossolani fraintendimenti.
La lettura integrale di un libro, con le sue pagine in serialità costrittiva, le sue frequenti ridondanze, costringe invece ad uno scavo metacognitivo e facilita i processi di astrazione: specialmente qualora alla lettura del libro, operata in sincronia più o meno stretta tra i vari membri di una classe (rimanendo la fruizione diretta del testo rigorosamente individuale), segua una socializzazione collettiva, mediata dallʼinsegnante e tendente a fare della classe stessa una comunità ermeneutica.
Ora, agli inizi dellʼa.s. 2016-2017 il dipartimento di lettere decise di fare del fenomeno dei migranti il filo rosso di buona parte del programma di Lingua e letteratura italiana, in particolar modo per le classi terze. Furono declinati i relativi obiettivi didattico-formativi e si creò una cartella condivisa su Dropbox, nella quale ogni insegnante ebbe modo di inserire materiali cui tutti i colleghi potessero attingere. Una di noi, Valentina Mangiaforte, propose tra lʼaltro la lettura del saggio di Todorov intitolato La conquista dellʼAmerica. Il problema dellʼ«altro»; io lessi questo testo, che non conoscevo, e lo inserii immediatamente nella mia programmazione.
Lʼopera, rileggendo lʼincontro (o, se si preferisce, lo scontro) tra la civiltà europea e quella amerindia soprattutto in termini di «scoperta» e «impatto» con lʼaltro, produce unʼinteressante traslazione nel tempo e nello spazio di unʼanaloga vicenda contemporanea (mutatis mutandis, è ovvio) di straordinaria importanza, ossia appunto quella delle attuali migrazioni internazionali; dunque si prestava in maniera molto stimolante ed efficace a far sì che gli studenti potessero accostarsi con atteggiamento «scientifico», diciamo socio-antropologico, ad entrambe le questioni.
Principale obiettivo formativo era unʼulteriore presa di coscienza di valori universali come la socialità e la solidarietà, anche ai fini di una sana e proficua convivenza democratica. Come corollario ne scaturì un secondo obiettivo, lo sviluppo del senso di responsabilità e dellʼimpegno nel far parte di una comunità.
Tra gli obiettivi cognitivo-didattici, invece, vi furono lʼarricchimento del patrimonio linguistico e lo sviluppo di alcune capacità: quella di rielaborare personalmente i contenuti, quella di interpretarli e valutarli criticamente, quella di affinare le proprie doti di analisi e di sintesi.
Ad una prima decodifica individuale del testo seguì, come sempre, una socializzazione collettiva. La verifica consisté nellʼeffettuazione di un questionario preparato dallʼinsegnante e seguito, dopo la correzione degli elaborati, da un ulteriore confronto collettivo.

Gli obiettivi possono dirsi complessivamente raggiunti, come ben attesta – paradigmaticamente – la relazione di Giulia Di Cara.



Tzvetan Todorov, La conquista dellʼAmerica: il problema dellʼ«altro»

Giulia Di Cara - IV H


La storia esemplare narrata da Todorov è una storia vera.
Il problema dellʼ«altro» non riguarda solo il passato, ma è più contemporaneo che mai: non può essere trascurato poiché, quasi contraddittoriamente, il problema dellʼ«altro» è il problema dellʼ«io».
La riflessione che ne deriva riguarda il rapporto tra i due, ma soprattutto su chi è “più” o “meno altro” dalla prospettiva del singolo.
Interrogarsi sulla relazione che unisce individui differenti per sesso, età, lavoro o classe sociale, ma che possiedono comunque un legame sufficientemente forte da tradursi in un “noi”, assume caratteristiche differenti da quella che può nascere dallʼincontro (o dallo scontro) con chi è estraneo, diverso per lingua, cultura e costumi e con nessunʼaltra comunanza se non quella di appartenere alla stessa specie.
È per questa ragione che Todorov non avrebbe potuto trovare argomento più adatto della scoperta dellʼAmerica per il ruolo di storia esemplare.
Colombo è mosso da intenti cristiani e sinceri, è un uomo di fede che modella il mondo e lʼ«altro» non per cercare verità, ma per affermare le proprie; un uomo che rende universali i suoi valori non per egoismo, bensì per cecità.
Lʼincapacità di mutare prospettive, i fraintendimenti, il modellare la realtà: cosa abbia davvero impedito a Colombo di scoprire non lʼAmerica, ma gli americani, dovrebbe servire come monito per non ricadere negli stessi errori che hanno portato al più grande genocidio dellʼumanità.
Colombo non è lʼunico protagonista di questa storia: Todorov attraversa gli eventi che vedono partecipi le figure di Cortés, Las Casas, Durán, Sepúlveda, Sahagún, Guerrero, Aguilar.
Le azioni degli spagnoli, partecipando a quella che Todorov chiama “società del massacro”, rivelano una crudeltà che abbandona i valori etici e morali, forse a causa della lontananza dalla propria terra: vedutisi al di fuori della portata del potere regio, gli spagnoli si danno ad una violenza ingiustificata, nata per il piacere della crudeltà stessa, che rivela quanto questa natura non sia bestiale, ma più umana che mai.
Paradossalmente, anche a difesa dellʼuguaglianza nasce la distinzione: gli indiani sono uguali agli spagnoli, non viceversa; gli americani sono “ottimi cristiani”, non ottimi uomini, e lo sono solo in relazione ai valori europei.
Non in grado di stabilire un piano dove le differenze non si concludono in un mero rapporto superiore-inferiore e giusto-sbagliato, gli spagnoli (almeno quelli che hanno tentato di dare una risposta diversa) hanno invertito lʼuguaglianza con lʼintegrazione, con il tentativo di assimilare gli indiani eliminando le diversità.
Anche il desiderio di conoscenza di Duran o lʼamore di Las Casas non sono bastati per arrivare alla comprensione, se mai fosse stata possibile, né ad impedire quella che è stata alla base della violenza della società moderna del massacrificio.
Todorov mette in guarda dal cadere nellʼerrore di reputarsi migliori, perché nemmeno oggi siamo in grado di giudicare il grado gerarchico dei valori passati e presenti, ed evidenzia come lʼincomunicabilità, lʼottenebramento delle visioni e la nostra natura stessa ci conducano alla distruzione dellʼaltro e, quindi, di noi stessi.




martedì 2 maggio 2017

LA SCELTA...DI SCEGLIERE



Ringraziamo il professore Savagnone per essersi gentilmente reso disponibile ad offrirci il contributo sulla nozione di "Scelta" che ha presentato ad uno dei seminari ASTER di cui abbiamo dato notizia nei mesi scorsi. Una breve e densa riflessione si articola attraverso una serie di snodi tematici e disciplinari, coinvolgendo la filosofia (Kierkegaard, Nietzsche, Heidegger), l'arte (Picasso), le scienze umane (l'antropologia, con Cluade Lévi-Strauss); un invito a soffermarsi sul significato e le ragioni di uno degli atti esistenziali fondamentali dell'Uomo, così di fatto lo cataloga la filosofia morale di Aristotele, che si offre ad una lettura agevole e stimolante, raccomandata in particolare, ma certo non esclusivo, modo ai ragazzi di quinta che con esso stanno in questi mesi misurandosi nell'orientare la propria vita verso nuovi indirizzi e traguardi.

NOTA BIOBIBLIOGRAFICA
Il professore Giuseppe Savagnone, già insegnante di Storia e Filosofia nei licei,  è docente della Scuola superiore di Specializzazione in bioetica e sessuologia dell'Istituto teologico S.Tommaso di Messina, nonché del Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università LUMSA (sede di Palermo). Direttore dell'Ufficio diocesano per la Pastorale della cultura di Palermo ed editorialista di "Avvenire", la sua produzione bibliografica è vastissima; tra le sue opere segnaliamo per la particolare attinenza con lo spirito del blog dipartimentale "Theoria. Alla ricerca della filosofia", Brescia, La Scuola, 1991. 

Giuseppe Savagnone

Che significa scegliere?




La scelta finalmente possibile

Sembra che oggi scegliere sia diventato molto più possibile che in passato. Non sono remoti i tempi in cui le persone si sposavano in base alla volontà dei genitori, quasi senza conoscersi e tanto meno scegliendosi; in cui i matrimoni si reggevano “agli occhi del mondo”, anche se uno dei due o entrambi i coniugi erano in realtà innamorati di altri; in cui i figli abbracciavano la professione paterna, quali che fossero le loro reali aspirazioni. La storia della monaca di Monza, narrata dal Manzoni, è emblematica. Tutto questo, ormai, sta alle nostre spalle. Gli individui possono orientare la propria vita, senza che la loro volontà sia sostituita da imposizioni altrui, sia nell’ambito affettivo che in quello professionale. È chiaro che dei condizionamenti continuano ad esserci, ma i margini di libertà, nel giro di pochi decenni, si sono enormemente ampliati.
Se poi dalle grandi scelte si passa a quelle quotidiane, il diminuito controllo sociale permette a tutti – specialmente ai giovani e alle donne - di avere molta più libertà di movimento e di comportamento. Inoltre, l’avvento della società dei consumi ci ha consentito di trovarci di fronte a una gamma praticamente illimitata di oggetti da acquistare, a fronte di un passato in cui questo era impossibile.
Non intendo sottovalutare la positività di queste conquiste. A cominciare dall’ultima, che può sembrare banale e non lo è. Ricordo ancora che, in un viaggio a Praga, la signora che faceva da guida raccontò che, da ragazza, era riuscita ad avere il permesso dal governo comunista per recarsi a Milano, dove, per via epistolare, aveva stretto delle amicizie. Subito dopo il suo arrivo, i suoi amici le avevano chiesto cosa volesse visitare: il Duomo, un museo… lei aveva risposto che voleva essere portata a un supermercato. Per quanto stupiti, i suoi ospiti l’avevano accontentata. E là, in mezzo a tante cose che nel suo paese erano introvabili, lei si era sentita inebriata. A un certo punto gli amici, un po’ impazienti, le avevano chiesto di decidersi su cosa acquistare. «Puoi scegliere quello che vuoi», le avevano detto. «Quando ho sentito queste parole: “Tu puoi scegliere”» - raccontava, «sono scoppiata a piangere».

Scelta di fare e scelta di volere

Ma proprio il mutato rapporto con le cose, determinato dal consumismo, solleva un dubbio inquietante sul significato che ha la scelta, così come si realizza abitualmente nella nostra società. Nessun dubbio che le persone possano, molto più che in passato, fare ciò che vogliono. Ma sono anche in grado di decidere cosa volere? Se per “scelta” intendiamo la prima cosa, è chiaro che oggi possiamo scegliere molto più di prima. Se invece intendiamo la seconda, la risposta è assai meno sicura. Non è affatto detto che tanti, quando si comportano in un certo modo perché vogliono farlo, siano stati davvero in grado di scegliere cosa volere. All’allargarsi delle possibilità di fare non sempre corrisponde una maturazione delle capacità di valutare se fare una cosa oppure no, e perché farla. Può accadere così che a scegliere, in realtà, siano i “persuasori occulti” che ci condizionano psicologicamente e ci fanno volere questa o quella cosa. Anzi, a ben vedere, l’aumento delle capacità di pressione delle mode, attraverso i mezzi di comunicazione, ha reso ancora più facile che a decidere ciò che vogliamo non siamo noi, ma quei “persuasori”.
Già Martin Heidegger, nel lontano 1927, faceva presente il problema. Egli definiva “inautentica” la vita della maggior parte delle persone, perché dominata dal “Si” nel senso impersonale. Egli osservava che, quando chiediamo a qualcuno perché parli in un certo modo, la risposta spesso è: «Perché oggi si parla così». E se gli chiediamo perché agisca in un certo modo, risponderà: «Perché oggi ci si comporta così». E così via. A questo punto, però, osserva il filosofo, «ognuno è gli altri e nessuno è se stesso»1. Col risultato che in fondo nessuno ha veramente scelto di volere fare una cosa o l’altra.
Non è solo il problema delle mode. Moltissime persone non si chiedono mai perché vogliono questo o quello. Le scelte che fanno sono tali solo in senso esteriore, riguardano il fare, non il volere. Ma, a questo punto, sono vere scelte?

La grandezza e l’angoscia della scelta

La verità è che scegliere davvero è impegnativo. Se ci limitiamo a seguire il gregge o anche semplicemente gli impulsi del momento, senza porci neppure la domanda sulla possibilità di comportarci diversamente, tutto è automatico e non nascono problemi. Perché «nessuno è se stesso» e il vero soggetto della scelta è la massa. Niente di nuovo accade, quando la si fa, rispetto alla volontà anonima del “Si” già in atto. Perciò, questo tipo di scelta è perfettamente prevedibile e calcolabile, come un qualsiasi fenomeno della natura, e su ciò si basano le indagini di marketing.
Ma se, invece, si sceglie decidendo liberamente cosa volere, allora quella scelta ha una grandezza incommensurabile e ha sempre, oscuramente, qualcosa di drammatico. L’autore che più di ogni altro, forse, ha esplorato questa realtà è Kierkegaard, il fondatore dell’esistenzialismo, a cui perciò ci ispireremo per questa riflessione. Per lui la (vera) scelta è grande e al tempo stesso terribile perché ci mette di fronte alla possibilità: «In un momento qualcosa si presenta come possibile, poi si presenta una nuova possibilità e alla fine queste fantasmagorie si susseguono così rapidamente che tutto sembra possibile; e questo è l’ultimo momento in cui l’individuo tutto intero è diventato esso stesso un miraggio»2.
Perciò la scelta determina dentro di noi, a volte, uno stato d’animo che Kierkegaard chiama «angoscia». Che non è la paura, perché questa ha sempre un motivo preciso – si ha paura di “qualcosa” - , mentre l’angoscia, nascendo dalla pura possibilità, è angoscia di “nulla”.
Il fatto è che lo scegliere di volere una cosa invece che un’altra ci fa essere, per una volta, creatori di ciò che non esisterebbe senza di noi: come minimo, il nostro stesso volere. Anche se non riuscissimo a fare davvero quello che vogliamo, qualcosa di nuovo esiste nell’universo dal momento che noi realizziamo in noi, consapevolmente e liberamente quell’atto di volontà. Perché esso non è il meccanico ripetersi di ciò che tutti vogliono, ma esprime noi stessi, la nostra presa di posizione, unica e irripetibile, davanti a uno dei tanti aut-aut della vita. Nessun essere umano, neppure Dio, potrebbe sostituirci in quel momento.
Per questo, sempre Kierkegaard, in una immaginaria lettera a un amico, parlando della libertà di scegliere scrive: «Questo è il tesoro che intendo lasciare a quelli che amo nel mondo. Se il mio figlioletto fosse adesso nell’età di poter comprendere e fosse giunta la mia ultima ora, gli direi: non ti lascio né sostanze né titoli, né onori; ma so dove giace un tesoro che ti può far più ricco di ogni cosa al mondo, e questo tesoro ti appartiene e di esso non devi ringraziare me (…): questo tesoro è sepolto nel tuo interno, è un aut-aut che rende gli uomini più grandi degli angeli» 3.
Davanti alla scelta siamo soli. Gli altri potranno consigliarci, ma alla fine siamo noi a dover dire la parola decisiva, di cui ci assumiamo la responsabilità, nel bene o nel male. E questa scelta è unica e irripetibile, dicevamo, perché potremo anche cambiare idea e farne subito dopo una opposta, ma questa non annullerà mai la precedente, sarà semplicemente diversa. Né la si può rimandare o eludere, perché anche questo significa scegliere, anche se è scegliere di non scegliere.
E di fatto sono molti a vivere facendo continue scelte sul piano del “fare”, ma senza mai chiedersi cosa vogliono veramente dalla vita e senza impegnarsi a scegliere davvero. Si capisce così la crisi delle “vocazioni”, non solo al sacerdozio o alla vita religiosa, ma anche al matrimonio o all’impegno politico. A fronte di persone che un tempo si davano interamente a cause, giuste o sbagliate che fossero, in cui impegnavano la loro esistenza, oggi prevale la logica del provvisorio, dell’effimero. Si sceglie, appunto, di non scegliere.

La mancanza del soggetto che possa scegliere

Alla base di questa difficoltà di scegliere, però, non sta solo la drammaticità della scelta. Vi è, alla radice, una crisi più profonda del soggetto, di cui la cultura contemporanea è al tempo stesso artefice e testimone. Dopo l’enfatica esaltazione dell’Io da parte della cultura moderna, assistiamo oggi alla sua liquidazione da parte di quella post-moderna. E’ stato Nietzsche – che di questa cultura è considerato il profeta, se non il “padre” – a scrivere che l'io è solo «una favola, una finzione, un gioco di parole»4. Per lui il soggetto umano è solo una maschera che nasconde un flusso caotico di pulsioni senza coerenza. Su questa linea oggi c’è chi, rifacendosi anche agli studi delle neuroscienze, sostiene che l’io altro non è che una società per azioni, per di più a maggioranza variabile.
Una visione analoga emerge da una pagina del famoso antropologo Claude Lévi-Strauss: «Vedo me stesso come il luogo in cui qualcosa accade, ma non v’è nessun “Io” né alcun “me”. Ognuno di noi è una specie di crocicchio ove le cose accadono. Il crocicchio è assolutamente passivo: qualcosa vi accade. Altre cose, egualmente importanti, accadono altrove. Non c’è scelta: è una questione di puro caso»5. Il soggetto diventa il frutto casuale delle sue esperienze, molteplici e frammentarie, incapace di dominarle, anche perché in fondo convinto di doversi identificare con il loro flusso senza direzione.
Per un riscontro sul piano artistico, basta confrontare il ritratto di un pittore del Rinascimento con uno dipinto da Picasso per vedere la differenza: nel primo troveremo una fisionomia compatta, sotto il segno di un’unica, coerente prospettiva spaziale; nel secondo a stento riconosceremo i tratti umani e solo guardando più attentamente ci accorgeremo che i singoli elementi – gli occhi il naso, la bocca - ci sono tutti, ma dispersi e disposti secondo prospettive diverse e contraddittorie.

Le maschere e il volto

Alla radice della incapacità di decidere vi è dunque la difficoltà di essere se stessi. La società del benessere oggi assicura ai giovani una serie di opportunità – settimane bianche, studio delle lingue, attività sportive – ma non li aiuta ad avere – anzi ad essere - un io. Anzi, proprio questa varietà di esperienze, dicevamo finisce per dissolvere il soggetto in esse, dandogli ogni volta una nuova forma, adeguata alla situazione.
Prima ancora di Pirandello, a dire che l’uomo assume maschere sempre diverse che lo disgregano è stato proprio Sören Kierkegaard. Scrivendo a un immaginario interlocutore, a cui rimprovera questa fuga da se stesso, l’autore scrive: «La vita è una mascherata, tu dici, e questo è per te fonte inesauribile di divertimento, e sei così abile che ancora non è riuscito a nessuno di smascherarti: poiché ogni manifestazione tua è sempre un inganno; solo in questo modo tu puoi respirare e far sì che la gente non si serri intorno a te e ostacoli la tua respirazione. In questo sta la tua attività, nel mantenere il tuo nascondiglio, e questo ti riesce, perché la tua maschera è la più misteriosa di tutte; infatti non sei nulla, e sei sempre soltanto in relazione agli altri, e ciò che tu sei lo sei soltanto per questa relazione».
Ma, continua l’autore, questo gioco è mortale per chi vi si abbandona: «Non sai che giungerà l'ora della mezzanotte in cui ognuno dovrà smascherarsi? Credi che si possa sempre scherzare con la vita? Credi che si possa di nascosto sgaiattolar via un po' prima della mezzanotte per sfuggirla? Non inorridisci a questo pensiero? Nella vita ho visto persone che tradirono tanto a lungo gli altri che alla fine il loro vero essere non poteva più manifestarsi; ho visto persone, che per tanto tempo giocarono a nascondersi, che alla fine in essi la pazzia ributtantemente mostrava agli altri quei segreti pensieri che essi fino ad allora avevano tenuti orgogliosamente celati. O puoi pensare qualche cosa di più terribile di ciò, che alla fine il tuo essere si disfi in una molteplicità, che tu veramente divenga più esseri, divenga una legione come gli infelici esseri demoniaci, e che così tu perda ciò che è più intimo, più sacro nell'uomo, il potere che lega insieme la personalità?»6.

La vita sprecata davanti a Dio

Vi è una dimensione religiosa in questa fuga da se stessi. Perché essa implica la fuga anche da Dio. «Si parla tanto di vite sprecate» - scrive ancora Kierkegaard -: «ma sprecata è soltanto la vita di quell'uomo che così la lasciava passare, ingannato dalle gioie della vita e dalle preoccupazioni, in modo che non diventò mai, con una decisione eterna, consapevole di se stesso come spirito, come “io”; oppure - ed è lo stesso - perché mai si rese conto, poiché non ebbe mai, nel senso più profondo, l'impressione che esiste un Dio e che “egli”, proprio lui, il suo io, sta davanti a questo Dio»7.
La difficoltà di entrare in rapporto con Dio è strettamente legata a quella di relazionarsi a se stessi. Chi dice di non saper pregare forse è una persona che non riesce, in primo luogo, a far pace con la propria vita e ad essere un io.
Ma «di una tal cosa non si fa molto caso nel mondo; perché dell'io il mondo si cura meno di qualsiasi cosa; e il pericolo più grande per un uomo è mostrare di averlo. Il pericolo più grande, quello di perdere se stesso, può nel mondo passare così inosservato; di ogni altra perdita, della perdita di un braccio, di una gamba, di cinque talleri, della moglie, ecc., uno se ne accorge certamente» 8 - di questa no. Anzi forse un uomo oggi «trova troppo rischioso essere se stesso» e per questo preferisce «essere un numero fra gli altri nella folla»9.
Scegliere significa, allora, molto di più che quel poter fare ciò che si vuole da cui siamo partiti. Proprio l’avere ridotto la scelta a un gioco di preferenze ormai costituite, senza spingersi a riflettere sulla loro origine, è il segno della perdita dell’io. E recuperare il valore autentico dello scegliere comporta non tanto una semplice rivendicazione di libertà dai vincoli che ci impediscono di soddisfare i nostri desideri, quanto il riscoprire la radice profonda che può dare ad essi e al loro perseguimento il loro vero significato. Perché solo allora, al di là di ciò che fa, una persona può dire di vivere una vita degna di essere vissuta.


1 M. Heidegger, Essere e tempo, tr. it. P. Chiodi, UTET, Torino 1969, pp.216-217.
2 S. Kierkegaard, La malattia mortale, a c. di C. Fabro, Sansoni, Firenze 1965, p.244.
3 S. Kierkegaard, Aut-Aut, intr. R. Cantoni, tr. it. K. M. Guldbrandsen e R. Cantoni, Mondadori, Milano 1988, p.52.
4 F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, a c. di G. Colli e M. Montinari, tr. it. F. Masini, Mondadori, Milano 1975, p.72.
5 C. Lévi-Strauss, Mito e significato, tr. it. C. Segre, Il Saggiatore, Milano 1980, pp.16-17.
6 S. Kierkegaard, Aut-Aut, cit., pp.35-36. Kierkegaard si riferisce, qui, all'episodio del vangelo di Luca in cui, a Gesù che gli chiede il suo nome, l'indemoniato risponde «Legione» - «perché molti demoni erano entrati in lui» (Lc 8,30).
7 S. Kierkegaard, La malattia mortale, cit., p.233.
8 Ivi, pp.239-240.
9 Ivi, p.241.
 

lunedì 13 marzo 2017

Il prof. Ribaudo, funzione strumentale all'orientamento in uscita, segnala il secondo seminario filosofico organizzato dall'Associazione ASTER - OrientaSicilia c/o il teatro Don Bosco Villa Ranchibile (via Libertà n.199 a Palermo). Esso avrà luogo giorno 16 marzo prossimo alle 15:00, sarà tenuto dal Prof. Salvatore Lo Bue e tratterà del tema: "L'Io va costruito? L'esistenza come compito tra vita estetica, etica e di fede. L'attualità imperitura di Kierkegaard". Le modalità organizzative sono le medesime di quelle già descritte nel post precedente (cui si rinvia) riguardante lo stesso argomento pubblicato su questo blog. Con l'occasione si rende noto che l'associazione prevede di realizzare altri 4 seminari dal 6 aprile. Chiunque, tra docenti e alunni, fosse interessato a questo o agli altri seminari potrà contattare per info direttamente l'associazione ai seguenti indirizzi: 
info@orientasicilia.it
anna.brighina@orientasicilia.it 
www.orientasicillia.it 
www.associazioneaster.it 
fax 091/8887294 
tel.091/8887219

P.S.: la registrazione degli alunni a questo seminario dovrà avvenire entro giorno 14 marzo.

martedì 7 marzo 2017

VALORIZZAZIONE ECCELLENZE (ex delibera dipartimentale)

Si rinvia alla circolare n.272 per il concorso "Tricolore Vivo" promosso anche dall'USR Sicilia (A.T. di Palermo).
"Alla sola Bellezza toccò in sorte il privilegio d'essere la più evidente ed amabile"

Le attività dipartimentali di quest'a.s. si avviano alla conclusione. 
Le classi terze (A,B,C,E), sulla scorta di quanto richiesto dai rispettivi docenti in virtù della programmazione di inizio a.s., assisteranno alla drammatizzazione del "Fedro" di Platone a cura dell'associazione PAIDEIA, condividendo anche momenti di riflessione sui temi più significativi del dialogo. 
Turni, orari e modalità di organizzazione degli incontri sono indicati nela circolare n.282 cui si rinvia anche per i relativi, necessari adempimenti amministrativi.
La stessa associazione propone gentilmente un incontro destinato a max 2 quinte, vertente sulla drammatizzazione e sulla relativa discussione degli argomenti trattati da Platone nell' "Alcibiade" primo o maggiore (politica e buon governo). I docenti interessati possono contattare il coordinatore di Dipartimento per avere i recapiti dell'associazione e concordare direttamente con la responsabile le date della performance.

lunedì 13 febbraio 2017

L'associazione ASTER - OrientaSicilia organizza un seminario tenuto dal prof. Giuseppe Savagnone avente come tema "La necessità di scegliere e la fatica di decidere. Il tentativo attuale di salvare gli opposti". L'incontro avrà luogo giovedì 23 febbraio prossimo alle ore 15:00 c/o il teatro Don Bosco Villa Ranchibile di via Libertà n.199, a Palermo. L'ingresso è gratuito e si raccomanda la puntualità. Gli alunni che volessero partecipare al seminario potranno richiedere il relativo attestato. In tal caso è necessario far pervenire i nominativi dei ragazzi all'indirizzo info@orientasicilia.it entro e non oltre venerdì 17 febbraio. Gli studenti interessati si dovranno pertanto accreditare firmando il foglio di presenza al loro arrivo. La segnalazione dei nominativi può essere effettuata direttamente dai docenti di Storia e Filosofia o dal coordinatore del Dipartimento (cui i nominativi dovranno essere comunicati entro le 12:00 di venerdì).
Ulteriori informazioni all'indirizzo www.orientasicilia.it

mercoledì 8 febbraio 2017

La conquista di se stessi...ad opera degli altri. Un ricordo di Todorov.

L'interesse di Todorov per l' "altro" s'inserisce nel quadro sviluppatosi nella seconda metà del Novecento di fitta, a volte controversa ma pur sempre feconda, intersezione tra istanze e prospettive antropologiche da un lato e filosofiche dall'altro. Strutturalismo, formalismo, critca letteraria, linguistica, semiologia, filosofia del linguaggio: molteplici ed eclettiche esperienze epistemologiche   traghettano il pensatore dalle sponde di maestri quali Bachtin e Barthes ad un approdo intellettuale autonomo e teoreticamente robusto, di cui la sociologia e la storiografia hanno poi fatto progressivamente tesoro. Nella sua formulazione di fondo, la tesi essenziale di Todorov si unisce a quelle offerte negli anni del postmoderno sintetizzate nelle ridefinzione della nozione di identità: essa si acquisisce - o si costruisce - in modo più completo attraverso lo sguardo dell'altro. La destrutturazione ed il ridimensionamento della concezione classica di "identità", considerata come responsabile storicamente di scontri e discriminazioni, diventerà ben presto un nuovo luogo comune della filosofia occidentale contemporanea, e quindi una consolidata elaborazione filosofica. Se ciò è avvenuto, lo si deve alla forza teorica con cui si è imposta al dibattito filosofico con le voci che le hanno dato corpo (ermeneutica, esistenzialismo, Levinas e - appunto - lo stesso Todorov ecc.), anche se i toni logicamente acuti cui hanno dato vita per emergere con la loro carica innovativa, non lo sono stati abbastanza da prevedere un successo così radicale da trasformare il nuovo, originale paradigma nell'ennesimo pregiudizio e stereotipo filosofico ormai un po' logoro, a prescindere dalla plausibilità che lo anima e dalla condivisibilità con cui lo si percepisce  (come dimostrano le posizioni sulle nozioni di "guerra", "barbarie" e "civiltà" riproposte ancora dal filosofo in alcune recenti interviste).

mercoledì 25 gennaio 2017

Giorno del Ricordo - dispensa didattica







LEZIONE SUL “GIORNO DEL RICORDO”
Dispensa didattica ad uso interno

1.Indicazioni normative
La legge n.92 del 30 marzo del 2004 istituisce il Giorno del Ricordo, riconoscendo la data del 10 febbraio come “solennità civile”. Il testo della legge, con particolare riferimento ai primi tre commi dell'art. 1, è il seguente:

1. La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale «Giorno del ricordo» al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale.
2. Nella giornata di cui al comma 1 sono previste iniziative per diffondere la conoscenza dei tragici eventi presso i giovani delle scuole di ogni ordine e grado. È altresì favorita, da parte di istituzioni ed enti, la realizzazione di studi, convegni, incontri e dibattiti in modo da conservare la memoria di quelle vicende. Tali iniziative sono, inoltre, volte a valorizzare il patrimonio culturale, storico, letterario e artistico degli italiani dell’Istria, di Fiume e delle coste dalmate, in particolare ponendo in rilievo il contributo degli stessi, negli anni trascorsi e negli anni presenti, allo sviluppo sociale e culturale del territorio della costa nord-orientale adriatica ed altresì a preservare le tradizioni delle comunità istriano-dalmate residenti nel territorio nazionale e all’estero.
3. Il «Giorno del ricordo» di cui al comma 1 è considerato solennità civile ai sensi dell’articolo 3 della legge 27 maggio 1949, n.260.
Come evidenziato dalla sottolineatura effettuata nel primo comma, la norma focalizza l'attenzione su tre aspetti distinti, suggerendone una chiara interconnessione: va sviluppata 1) la memoria di tutti gli infoibati, dedicando specifica ma non esclusiva attenzione alle vittime di nazionalità italiana; 2) quella del significativo esodo di centinaia di migliaia di profughi istriani, dalmati e fiumani sia – infine – 3) quella della complessa e controversa questione dei confini orientali dello Stato italiano.
Per mostrare i nessi che collegano queste tre tematiche, può essere utile partire da eventi circostanziati della microstoria.

2.Il quadro storico
2.1 Episodi storici
Nel 1943 Norma Cossetto è una giovane studentessa ventitreenne di Lettere dell'Università di Padova. Italiana d'Istria, sta lavorando in quei giorni alla sua tesi di laurea (che riguarda i giacimenti di bauxite in Istria). Figlia di un funzionario del Partito Nazionale Fascista, è iscritta ai GUF (Gruppi Universitari Fascisti) ma non risultano attività riconducibili ad una sua attiva militanza politica in Istria. Far parte dei GUF era pressoché normale in quei tempi, in quanto costituiva un viatico alla partecipazione ad iniziative culturali di pregio (come per es. i Littoriali); lo testimonia l'appartenenza a questi raggruppamenti di partito anche di figure che diventeranno intellettuali di primo piano dell'antifascismo italiano nel dopoguerra (ad es. Norberto Bobbio). Ai primi di ottobre Norma viene sequestrata per quattro giorni dalla milizia politica titina (i partigiani comunisti slavi del futuro dittatore della Jugoslavia Tito), interrogata, torturata, seviziata e violentata ripetutamente da una ventina di uomini. Insieme ad altri 26 compagni di prigionia venne condotta il 5 ottobre in prossimità di una foiba1. Legati da un filo di ferro, i prigionieri di solito vennero spinti all'interno dell'inghiottitoio, non prima di essere ulteriormente oltraggiati fisicamente, con il consolidato “sistema domino” dettato sia da una forma di sadismo, sia dalla necessità di economizzare il ricorso ai mezzi di soppressione (risparmiando ad es. le pallottole): si sparava al primo della fila che, cadendo, trascinava dentro la foiba gli altri ancora vivi. Queste 27 vittime vengono annoverate nel conteggio di circa 5/700 altre vittime italiane (soppresse nelle foibe e o nei campi di detenzione, deportazione e concentramento) provocate in circa un mese, al ritmo di una ventina al giorno in media, dalle milizie slave comuniste all'indomani dell'armistizio del 8 settembre del 1943 nell'area della Venezia Giulia, Trieste inclusa, e in quella istriano-dalmata. Nel 2005 il Presidente della Repubblica Ciampi ha conferito la Medaglia d'Oro al Valor Civile alla ragazza istriana.

5 maggio 1945, la guerra è ormai formalmente conclusa per l'Italia con la liberazione di Milano del 25 aprile e la successiva esecuzione nei pressi di Dongo e Giulino di Mezzegra di alcuni gerarchi del Regime e dello stesso Duce Mussolini (28 aprile). Tre membri della Milizia Ferroviaria Fascista vengono arrestati dalla Sezione Criminale della Difesa Popolare della Milizia Popolare di Liberazione (articolata a sua volta in Comitato Popolare di Liberazione ed Esercito Popolare di Liberazione) capeggiata da Tito. Anche in questo caso val la pena ricordare che non si trattava di attivisti di partito o di quadri militanti nel Partito Nazionale Fascista; semplicemente, per lavorare in qualsiasi ufficio della Pubblica Amministrazione durante il ventennio del Regime fascista occorreva necessariamente essere iscritti all'unico Partito autorizzato ad operare politicamente sul territorio nazionale che, nell'ottica del monopartitismo totalitario, tendeva per alcuni versanti a sovrapporsi alle istituzioni statali. I tre prigionieri vengono torturati e interrogati per una quindicina di giorni in una locale caserma, quindi condotti presso una locanda-trattoria di un villaggio rurale slavo; ivi sottoposti al giudizio di un improvvisato tribunale popolare i cui giudici altri non erano in maggioranza che gli avventori dell'osteria. Furono condannati a morte. Sentenza eseguita immediatamente presso una foiba. Le tre vittime fanno parte del tragico bilancio dei quaranta giorni di occupazione di Trieste (dal maggio al giugno del 1945) da parte delle truppe titine.

2.2 Dati storici e orientamenti storiografici
Ancora oggi non si dispone di cifre ufficiali concordi sull'entità esatta del numero di vittime del tragico triennio 1943-1945. Gli esuli istriani e dalmati che abbandonarono i propri beni, le proprie terre e le case per sfuggire alla tragica caccia all'uomo allestita dai partigiani di Tito furono tra i 250.000 e i 350.000 circa; i morti e i dispersi vanno dai 5.000 ai 10.000.
Al di là delle difficoltà oggettive che si frappongono all'esatta ricostruzione di quanto avvenuto (documenti ufficiali mancanti o secretati e quindi non disponibili alla consultazione, difficili rapporti politici – soprattutto in ordine a questo argomento – tra Italia e Jugoslavia nel dopoguerra), a rendere ancora più difficoltoso il lavoro di ricognizione storica (e in certi casi anche giudiziaria) è il frastagliato panorama storiografico riconducibile alle diverse posizioni in merito assunte dagli storici. Tale eterogeneità può, generalizzando, essere sintetizzata in 3 prospettive essenziali.
a) esiste una storiografia negazionista delle foibe, di matrice prettamente slava ma che non ha mancato di reclutare adepti anche in ricercatori italiani accademici e non (di non trascurabile entità, considerando la sitografia internet disponibile riconducibile il più delle volte ad aree politicamente e ideologicamente di ben definita connotazione). Per tale filone non esiste una questione “Foibe”. Non ci fu nessun eccidio, al massimo si registrarono poche decine di casi confinabili nell'ambito della cronaca giudiziaria e non storica, imputabili a schegge criminali impazzite e fuori controllo dell'organizzazione politica/poliziesca di Tito.
b) V'è poi un filone storiografico slavo e italiano riduzionista che, pur non negando le cifre circolanti sugli eccidi delle foibe, tende a ricondurli, condannandoli comunque, ad una sorta di comprensibile, ma non giustificabile, reazione slava alle violenze perpetrate dal Regime fascista (e dallo stesso esercito italiano) nei confronti degli slavi durante il periodo di gestione del potere da parte degli italiani su ampie aree territoriali a maggioranza slava. Si tratta di un filone che ha avuto ed ha un certo seguito anche nella manualistica scolastica e trova i suoi esponenti di maggior rilievo negli storici A.Camera e R.Fabietti, e oggi nello stesso De Luna che – infatti introduce la trattazione delle Foibe citando come antefatto esplicativo la cosiddetta strage di Lubiana2. Nel capoluogo sloveno durante l'occupazione italiana sviluppatasi nell'arco di 29 mesi sono state conteggiate circa 13.000 vittime slovene, cifra cui si perviene sia attraverso documentazioni formali e informali (lettere private dei soldati, ad es.) dell'esercito italiano, sia attraverso bilanci tratteggiati dalla storiografia slovena.
Sono estremamente limitati i casi di rischioso scantonamento di tale filone in atteggiamenti pseudogiustificazionisti; collaterale a tale prospettiva riduzionista, che riconduce al fascismo la causa prima dell'acuirsi delle tensioni e delle violenze etnico-politiche nell'area balcanica, è la posizione di chi, come R. Pupo, sottolinea – condannandolo – il carattere indiscriminatamente antitaliano delle persecuzioni slave titine, evidenziandone al contempo l'estraneità dei movimenti di Resistenza partigiana ai quali non sarebbe imputabile alcuna forma di connivenza, complicità o responsabilità in merito.
c) C'è infine una produzione editoriale, inizialmente non accreditata nei dipartimenti di ricerca storica delle Università italiane, che ha indagato e denunciato il fenomeno già a metà degli anni '40 del '900. Anche in questo caso sono ridotti, seppur presenti, i casi di enfatizzazione politica e ideologica del fenomeno che si verficano quando questo, ferma restando la sua indiscutibile tragicità, viene catalogato in modo eccessivo come “genocidio” attraverso un'esagerazione del numero delle vittime o dei profughi coinvolti nell'esodo dalle provincie orientali. Più frequente invece è l'atteggiamento di accuratezza nell'indagine che ha consentito di preservare i dati storici, mettendoli poi a disposizione di quella storiografia di ambito universitario che ha cominciato ad occuparsi sistematicamente della questione, riservandole spazi sempre più ampi e approfonditi di ricerca a partire dagli anni '90 del secolo scorso (vedasi i lavori sulla polizia politica titina dello storico recentemente scomparso Klinger, o i contrubuti di Raoul Pupo dell'Università di Trieste). Protagonisti di quest'opera di custodia e trasmissione di informazioni storiche sono associazioni di esuli, riviste, fondazioni, circoli culturali di ex combattenti che hanno accumulato e archiviato materiale storico oggi in parte disponibile anche nel WEB. Tale lavoro di promozione di conoscenza e coscienza storica ha poi avuto riflessi anche sul piano politico (con il varo della Legge 92/2004) e didattico (con lo spazio riservato da ormai quasi tutti i manuali di storiografia ad un fenomeno invece precedentemente negletto).

Cosa emerge dal confronto di queste tre prospettive, tra loro e con i dati di cui disponiamo?
Il primo elemento su cui concentrare l'attenzione è la lettura del fenomeno “Foibe” come espressione di una legittima operazione di liberazione, nonché di rivalsa politica e militare delle popolazioni slave contro l'oppressore fascista .
Tale prospettiva è spesso, ma non sempre, associata ad una sorta di corollario: la sovrapposizione o identificazione tra “italiano” e “fascista”.
Essa denuncia diversi punti di criticità.
E ciò per alcune semplici ragioni: 1) non tutte le vittime erano fasciste3 (a volte non lo erano nemmeno quelle in possesso di una tessera, condizione quasi necessaria alla sopravvivenza economica nel territorio statale italiano; meno che mai lo erano quelle – e ce ne furono tantissime – prive della tessera del PNF); 2) alcune delle vittime non solo non erano fasciste, erano anzi antifasciste. Si registrarono infatti vittime anche tra gli esponenti del Comitato di Liberazione Nazionale - Alta Italia, organizzazione politica delle formazioni politico-militari partigiane italiane. Alcune delle vittime appartenevano allo stesso comunismo della Venezia Giulia, dimostrando così come all'interno della guerra civile di liberazione antifascista si fosse consumata un'ulteriore guerra civile fratricida combattuta tra le formazioni comuniste della Venezia Giulia, dell'Istria e della Dalmazia che vide contrapposti chi si schierò con i partigiani comunisti slavi, dando vita ad un serrato collaborazionismo nelle operazioni di rastrellamento condotte da questi ultimi, e chi invece tentò di ostacolare il dilagare delle truppe titine in quelle aree territoriali4; 3) alcuni fascisti, non residenti in Istria o Dalmazia ma caduti nelle reti poliziesche titine trovandosi per lavoro in trasferta, furono assolti o comunque rilasciati dalla polizia slava (che si limitò ad emettere provvedimenti di espulsione); 4) infine, com'è stato recentemente ricordato anche dal Presidente della Repubblica italiana Mattarella, i partigiani di Tito fecero un gran numero di vittime anche tra gli stessi slavi (di ideologia politica avversa a quella del comunismo non ortodosso di Tito).

Dati alla mano, è certamente innegabile che oggetto delle attenzioni di Tito furono in netta prevalenza gli Italiani. E lo furono in quanto Italiani, indipendentemente dal loro credo politico o dal grado di “compromissione” con il crollato regime fascista. Perché?
È a questo proposito che si spiega il riferimento normativo alla complessa questione dei confini orientali, ossia – in altre parole – al controverso problema dell'italianità dell'Istria e della Dalmazia e della convivenza tra italiani e slavi in quell'area geopolitica.
Inoltre la focalizzazione sulle responsabilità storico-politiche del regime fascista e delle sue istanze nazionaliste può ingenerare l'equivoco di confondere il detonatore con i detonanti e la detonazione stessa. La domanda cioè che in sede storiografica va posta è: quale data, quale periodo storico va considerato decisivo per l'esplodere della questione italo-balcanica? Comincia tutto col fascismo?Pur degenerando tutto con esso, e con la scelta fallimentare e perdente del conflitto mondiale, quali sono le radici storiche e culturali più profonde del fenomeno che esplose negli anni'40? Il regime fascista è senz'altro convenzionalmente identificato dalla storiografia come il soggetto che con le sue scelte nazionaliste e discrimnatorie si è posto come causa più prossima e diretta, e in tal senso più concretamente condizionante, del dramma vissuto dalle popolazioni balcaniche (italiane comprese) nella prima metà del Novecento, ma individuarlo come unica causa significherebbe trascurare un lungo processo di sedimentazione storica pregressa dando luogo così ad una forma evidente di semplificazione/astrazione analitica in sede di ricerca e ricostruzione storica: di fronte ad un evento storico complesso e articolato le cause non sono né singole e tanto meno le ultime in ordine cronologico (così come la sconsideratezza criminale di Princip e dell'irredentismo serbo non può essere reputabile come la sola causa della I guerra Mondiale). Lo stratificarsi nel corso del tempo di dinamiche e fattori eterogenei a monte di un fenomeno storico variamente sfaccettato rende parziale l'attribuzione ad uno solo di essi, per quanto grave, la colpa di rappresentare il punto di rottura del fragile e critico equilibrio che lo caratterizza. Crisi invece comprensibile soltanto se inquadrata come lo sbocco prevedibile di un processo di lunga incubazione (precedente rispetto all'affermarsi del regime fascista). Insomma, accade in storiografia quello che accade con il cosiddetto paradosso del mucchio in filosofia: se un granello, due granelli, tre granelli non costituiscono un mucchio, qual è il numero esatto a partire dal quale possiamo dire che più granelli, una moltitudine di essi comincia a costituire, diventa mucchio? Ebbene, di fronte al sovrapporsi, a tratti incalzante, di aspetti e coefficenti storici diversi a monte di un certo evento, quale di essi si configurerebbe come quello “decisivo” nel determinare la generazione del fenomeno in questione?


2.3 Irredentismo: excursus storico
Dal III sec. a.c. al VI sec. d.c. la Dalmazia assume lo status giuridico e politico di Provincia romana di rango senatorio prima e imperiale poi, diventando in seguito “tema” dell'Impero bizantino con a capo uno specifico Stratego. La romanizzazione della Dalmazia scaturisce dalle due guerre illiriche combattute nel III sec. a.c. per reagire sia alle tendenze espansionistiche del regno d'Illiria, sia alle scorrerie piratesche degli Illiri nell'Adriatico ai danni dei mercantili romani, con episodi di violenza criminale perpetrata anche ai danni di legati di Roma. L'Istria viene invece conquistata dai romani e strappata agli Istri nel 178 a.c., integralmente annessa alla X Regio Italia, Venetia et Istria, con deduzione di nuove colonie (Capodistria, Pola ecc.). Anche questa guerra trova tra le sue cause principali la risposta romana alle scorrerie condotte dagli Istri presso la colonia di Aquileia. Dopo la parentesi del dominio gotico di Teodorico (e il precedente crollo sotto i colpi degli Unni di Attila) anche l'Istria diventa “tema” bizantino – a seguito della riconquista giustinianea del VI sec. con la guerra cosiddetta greco-gotica incorporata con Venezia nell'Esarcato di Ravenna, costituendo così un governatorato italiano per l'Imperatore di Bisanzio. A proposito dell'Istria viene dunque riconfermata in modo diretto la sua integrale appartenenza, già sancita durante l'Impero augusteo, al contesto geografico e politico italiano. Durante il secolo VIII tale italianità viene ribadita dalla collocazione di quest'area entro i confini del Regno d'Italia, facente parte della costruzione imperiale carolingia denominata Sacro Romano Impero (del Regno d'Italia era Sovrano il figlio di Carlo Magno, Pipino), mentre l'Imperatore rinuncia alla sovranità sulla Dalmazia che viene, con la stessa città di Zara, lasciata all'Impero bizantino in cambio della ratifica da parte di questo dell'autorità carolingia sull'Impero d'Occidente (pace di Aquisgrana 812). Da questo momento nel corso dei successivi 4 secoli la Dalmazia transiterà dal dominio bizantino a quello veneziano. Venezia, resasi autonoma sotto la guida del Doge, acquisirà l'egemonia sull'Adriatico raccordando le sue azioni politiche in quell'area con i Franchi prima e con gli ottonidi in seguito (quando il Sacro Romano Impero Germanico farà dell'Istria un marchesato provinciale italiano) che controllavano l'Istria. Infine, nel XIII sec. anche l'Istria cadrà sotto il controllo di Venezia. Ma, a sua volta, nel XVIII sec. Venezia viene posta sotto il controllo dell'Impero austriaco a seguito del Trattato di Campoformio5 del 1797, stipulato tra Napoleone – per conto della Francia, in qualità di comandante generale dell'esercito francese in Italia – e l'Impero Austro-Ungarico. Tutti i suoi territori ricadono dunque giurisdizionalmente entro l'Impero austriaco fino al 1805 allorquando Napoleone istituirà il Regno d'Italia con capitale Milano, e con la pace di Presburgo annetterà Istria e Dalmazia a tale regno. Poi, nel 1809, Istria e Dalmazia diventano province illiriche direttamente dipendenti dall'Impero napoleonico e non più annesse al Regno d'Italia. Crollato l'Impero napoleonico, nel 1815 al Congresso di Vienna si sancì l'appartenenza del Veneto, dell'Istria e della Dalmazia all'Impero Austro-Ungarico.
Fino agli inizi del XIX sec. l'italianità di quei territori viene pertanto stabilita e confermata in almeno 3 occasioni storicamente significative: durante l'Impero romano, quello carolingio e quello napoleonico.
E gli slavi? I problemi di convivenza tra etnia slava e italiana sono spesso riconducibili a scelte politiche che coinvolgono soggetti istituzionali “altri” (a volte anche superiori). I primi insediamenti si registrano nel VII sec. (quasi mille anni dopo dunque i primi stanziamenti romani), allorquando l'Imperatore bizantino Eraclio con un rescritto autorizzò gli slavi a stanziarsi nell'entroterra dalmata purché s'impegnassero a contrastare le incursioni degli Avari (tribù barbarica a loro precedentemente alleata). Altre allocazioni slave furono autorizzate dai duchi franchi e dai veneziani che da un lato concessero il permesso di fondare ville e dall'altro dovettero fronteggiare le razzie degli Uscocchi nella baia del Quarnaro (pirati slavi che spesso operavano d'intesa con l'Impero austriaco). In particolar modo, lontano dalle fasce costiere e dunque nell'entroterra, si consolidano tra il IX e il X sec. alcuni regni slavi (croati). I pontefici spingevano al fine di sottrarre al Doge di Venezia il titolo di Dux della Dalmazia, volendo conferire – senza successo il titolo di Re della Dalmazia ai sovrani croati.
La politica austriaca di dominio sul territorio, protrattosi per un secolo (dal 1815 al 1918), contribuì – unitamente a quella della Chiesa – ad esarcerbare i contrasti tra popolazione slava e italiana determinando tra l'altro un rimarchevole cambiamento sul senso e sulla direzione della lotta politica degli italiani in Istria e Dalmazia. Si transitò dall'Autonomismo, ossia una lotta finalizzata prioritariamente all'indipendenza dell'Istria e della Dalmazia dall'Impero austriaco con un progetto di autogestione politica che coinvolgesse tutte le etnie presenti (slava e italiana), all'Irredentismo, posizione politica che considerava invece prioritario il recupero di queste regioni da parte dell'Italia all'insegna della conferma delle radici e delle tradizioni storiche che assegnavano alla nazionalità italiana una posizione di preminenza in esse6. A parere dell'Irredentismo i confini politici dello Stato-Nazione italiano dovevano coincidere il più possibile con i confini naturali della regione geografica italiana. Ciò significava per esempio spostare la linea del confine orientale dall'Isonzo alle Alpi Giulie, più adatte alla funzione di difesa del suolo patrio da attacchi stranieri. Si sviluppa un movimento politico che eserciterà un ruolo di primaria importanza nelle battaglie risorgimentali ottocentesche volte al conseguimento dell'unità e dell'indipendenza (innanzitutto dall'Austria) da parte della nazione italiana con la nascita del relativo Stato. Uomini come Niccolò Tommaseo7, dalmata, saranno eroici protagonisti di questa epopea risorgimentale combattendo ad es. nella Legione dalmato-istriana che si contraddistinse per la passione e l'impegno profuso nelle sommosse italiane antiaustriache. L'Austria, dal canto suo, era caratterizzata all'interno dell'Impero dal cosiddetto trialismo, la necessità cioè di gestire la convivenza tra tre etnie differenti: tedesca, magiara (ungherese) e slava. Coerentemente con l'idea di Metternich, Cancelliere austriaco protagonista del Congresso di Vienna, gli austriaci non si ponevano il problema della nazionalità italiana, dato che “Italia” per la classe politica austriaca era solo un'espressione geografica. Per reagire all'irredentismo italiano (che toccherà il suo apice nella seconda metà dell'Ottocento) gli Austriaci faranno leva sull'etnia slava, compensando con una serie di concessioni a favore di questa la posizione fino ad allora di preminenza culturale degli italiani: se fino al XIX sec. la lingua ufficiale in ambito politico-amministrativo era il latino o l'italiano, tanto che spesso i banditori per le strade nel dare comunicazione dei provvedimenti legislativi e gli avvocati nei processi per difendere il proprio patrocinato slavo dovevano ricorrere agli interpreti, nell'Ottocento il serbo viene ufficialmente affiancato all'Italiano. Gli austriaci, inoltre, per reprimere le organizzazioni politiche italiane irredentiste si avvalevano di reggimenti croati che svolgevano il proprio compito spesso con zelo eccessivo. La Chiesa, entrata in conflitto con lo Stato italiano dopo la Breccia di Porta Pia del 1870, non mancò di appoggiare le rivendicazioni slave attraverso una fitta opera di propaganda filoaustriaca e filoslava condotta nelle parrocchie delle varie diocesi dalmate e istriane. Vennero ridisegnate le circoscrizioni elettorali e venne riformata la stessa legge elettorale per favorire la maggioranza slavofona (ma non nelle città a maggioranza italiana) e, in ultimo, vennero promossi ulteriori stanziamenti di slavi nell'entroterra. A ciò si accompagnarono anche aggressioni violente come quelle patite dai marinai italiani a Sebenico nel 1869, o l'incendio del teatro comunale italiano di Zara. Durante la I Guerra Mondiale venne arrestato e deportato l'intero consiglio comunale italiano di Zara.
Quando con il Patto di Londra8 nel 1915 venne riproposta, in chiave antiaustriaca, la questione della sovranità italiana sui territori dalmati e istriani, la situazione delineatasi nei Balcani era la seguente: la Bosnia Erzegovina era stata annessa all'Austria nel 1908, mentre già dal 1875 Serbia e Montenegro avevano ottenuto l'indipendenza dall'Impero Ottomano grazie all'appoggio della Russia. La penisola Balcanica, contesa tra Austria e Russia e articolata in una serie di Stati e staterelli autonomi (spesso tali soltanto formalmente, perché in realtà satelliti dei due grandi Imperi), costituiva una vera bomba politica pronta ad esplodere, le cui avvisaglie si manifestarono già tra il 1912 e il 1913 con una serie di conflitti con cui s'impose la cosiddetta “questione balcanica” alle cancellerie europee, dopo un primo tentativo di soluzione diplomatica transitoria sperimentata da Bismarck (Cancelliere prussiano) durante il Congresso di Berlino del 1878. Non a caso la I Guerra Mondiale avrà origine proprio nei Balcani con l'attentato di Sarajevo (capitale bosniaca). Durante la guerra, nel 1917 a Corfù fu organizzata una Conferenza che sancì la nascita dello Stato della Jugoslavia, una monarchia federale che comprendeva tre nazioni: croata, serba e slovena. L'interesse dell'Inghilterra era creare un soggetto politico autonomo che ridimensionasse considerevolmente e mettesse in crisi il dominio austriaco (e in fondo anche quello russo) sui Balcani, non tenendo però conto che questo avrebbe comportato gravi problemi di coesistenza con le aspirazioni italiane; la Jugoslavia infatti avanzò quasi subito pretese su Fiume e Zara (quest'ultima promessa all'Italia) che l'Inghilterra di fatto avallò (la Francia addirittura appoggiava le rivendicazioni slave su Trieste). E infatti conclusasi la guerra, durante la Conferenza di pace, all'Italia, che le rivendicava, furono negate sia Fiume (non rientrante nel Patto di Londra, ma che con un plebiscito aveva dichiarato di voler essere annessa all'Italia sulla base del principio di autodeterminazione dei popoli che il Presidente degli USA Wilson, entrando in guerra, aveva sancito nei suoi 14 punti programmatici come principio della politica internazionale fondamentale su cui costruire l'Europa postbellica), la quale venne dichiarata città libera (né italiana, né jugoslava, soddisfacendo così anche le richieste dei cosiddetti autonomisti di Zanella, fiero avversario politico dei nazionalisti italiani fiumani) sia – inizialmente – Zara.
A questa “vittoria mutilata” reagì D'Annunzio con la cosiddetta impresa dei legionari di Fiume. Reduci della I Guerra Mondiale, militari e marinai ammutinatisi si arruolarono volontariamente nelle fila dannunziane e nel 1919 partirono da Ronchi, occuparono Fiume dando vita alla cosiddetta Reggenza del Quarnaro (nome del Lido su cui si affacciava la città). Ad appoggiare politicamente ed economicamente l'impresa furono i nazionalisti, gli irredentisti e i fascisti di Mussolini. Il piano originario prevedeva la contemporanea sollevazione in Italia contro il governo per dare vita ad un Regime modellato su principi che, in parte, verranno attuati soltanto 6 anni dopo con la nascita della dittatura fascista. La costituzione della città di Fiume prevedeva l'istituzione di Corporazioni, un rettorato di governo con a capo un Comandante con supremi poteri operativi in caso di crisi. La proprietà privata venne considerata per la sua utilità sociale e non come dominio delle persone sulle cose; fu proclamata la libertà di stampa, di coscienza, di riunione e sancito il divieto di discriminazioni sessuali, religiose, etniche e sociali. La città venne assediata dalle forze armate italiane, essendo il governo di Nitti in grave imbarazzo di fronte alla diplomazia internazionale. Con un embargo (che D'Annunzio cercò di aggirare con la pirateria uscocca) si produsse una gravissima crisi economica, finché Giolitti non fece sgombrare la città a cannonate. La valutazione politica e storiografica dell'impresa fiumana è variegata. Secondo alcune versioni costituì una prova generale della violenza fascista e nazionalista; per altri un fecondo laboratorio politico in cui si mescolarono istanze nazionaliste, anarchiche, fasciste e socialiste (Lenin apprezzò e incoraggiò l'esperienza politica fiumana) e che riprodusse tratti significativi del Risorgimento, anche quelli tragici (vedi lo scontro tra Giolitti e D'Annunzio che richiama per analogia quello fratricida sull'Aspromonte tra l'esercito di Cialdini e Garibaldi). Ma sempre nel 1919 nel Regno croato, serbo e sloveno non mancarono atti di aggressione e violenze nei confronti dei dalmati ex italiani (la famiglia della futura stilista Mila Schön, ad es., dovette abbandonare Traù nella Dalmazia jugoslava a causa dell'attentato subito dalla sua famiglia). Col Trattato di Rapallo del 1920 Fiume fu dichiarata città libera e Zara data all'Italia. Nel 1924 Mussolini a Roma riuscì ad ottenere il riconoscimento dell'italianità di Fiume (il che provocò una serie di aggressioni e manifestazioni antitaliane a Spalato). La politica fascista fu caratterizzata per quasi un ventennio da un indirizzo nazionalista che assunse le forme, anche accentuate, di antislavismo: furono chiuse le scuole slave, soppressi partiti e associazioni culturali slave, operate aggressioni squadristiche nei confronti degli slavi. Va puntualizzato che si trattava di strategie omologhe a quelle che il Regno di Jugoslavia continuava a praticare nei confronti degli italiani, tanto da causare in quei vent'anni un flusso costante di immigrazione dalle regioni jugoslave dell'entroterra verso le città italiane dalmate e istriane della fascia costiera. Non si registrano invece consistenti ondate migratorie dai grossi centri urbani costieri italiani verso le aree territoriali jugoslave (un ufficioso censimento del 1937 non attesta decrementi della presenza slava in territorio italiano istriano-dalmata). Nel 1941 dai Balcani parte la controffensiva tedesco-italiana nei confronti dell'esercito greco che, reagendo all'attacco italiano del 1940, si era spinto fino alle porte dell'Albania (diventata parte dell'Impero fascista italiano nel 1939, con lo status giuridico, politico e amministrativo di “regno”). L'Erzegovina venne annessa all'Italia (mentre il Montenegro divenne un protettorato nazista e Serbia e Bosnia degli Stati satelliti autonomi filonazisti). È proprio in questo periodo che Tito mette a punto la sua strategia di liberazione della Jugoslavia dal controllo italo-tedesco. Essa prevedeva a) internamente la compattazione dei combattenti slavi, unificandone le tre etnie principali (serba, croata e bosniaca) in virtù dell'identificazione di un nemico comune, l'Italiano, tale sia per ragioni nazionali o etniche (straniero), sia per ragioni politiche (le discrasie socio-economiche tra la ruralità slava e la nazionalità italiana prevalentemente medio-alto borghese e urbanizzata fu strumentalizzata da Tito per dipingere l'Italiano fascista come l'anticomunista per eccellenza e, in quanto tale, sfruttatore del lavoratore slavo); b) esternamente, facendo leva proprio sulla caratura ideologica comunista assegnata alla sua missione storica di liberazione jugoslava, mirava a spaccare il fronte dei partigiani italiani volgendo le brigate comuniste contro quelle cattoliche e contro le formazioni liberali (a Porzus si consumò una strage di partigiani cattolici, della Brigata Osoppo, da parte dei partigiani comunisti italiani filotitini appartenenti alla Brigata Garibaldi; in tale eccidio perirono uno zio del cantautore Francesco De Gregori e il fratello del regista e scrittore Pasolini).
Il Governatore fascista Bastianini (gerarca e ministro del Regime fascista), memore delle negative conseguenze delle pregresse strategie fasciste amministrò i nuovi territori concedendo limitate aperture, per quanto possibile in un regime che restava comunque ultranazionalista, alla nazionalità slava: equiparò la lingua serbo-croata a quella italiana, mantenne i burocrati slavi al loro posto, così come le residue scuole slave all'epoca ancora operative. Ma tra il 1943, dopo l'armistizio di settembre e la parentesi del Litorale tedesco, e il 1945 (fine della guerra) le violenze titine furono costanti. Lo stesso campo di concentramento della risiera di San Sabba presso Trieste fu inizialmente allestito per internarvi i partigiani slavi e italiani che si erano resi protagonisti degli attacchi a Trieste e a quelli in Istria e Dalmazia contro gli italiani. La città di Zara, passata nel 1944 da 24.000 a 2.000 abitanti per la fuga e l'esodo degli italiani attaccati dalle formazione titine, fu sottoposta dalle forze Alleate ad un fitto bombardamento pur non rivestendo nessun ruolo strategico utile ai fini dello svolgimento del conflitto, come Tito fece invece credere ai comandi alleati, bensì soltanto per ultimare la pulizia etnica delle residue comunità di Italiani presenti. Tale fu l'intensità e la devastazione dei bombardamenti che la città venne praticamente rasa al suolo, tanto da essere denominata la Dresda9 d'Adriatico. Contemporaneamente furono allestiti campi di concentramento degli italiani vittime dei rastrellamenti titini (v. Campo di Pisino).
Col Trattato di Parigi del 1947 tutte le città a maggioranza italiane furono assegnate alla Jugoslavia di Tito: furono chiuse le scuole italiane e fu proibito l'uso della lingua italiana. A Londra nel 1954 si sancì il passaggio della zona triestina controllata dagli Alleati all'Italia. A Osimo nel 1975 si ratificò la divisione dell'area di Trieste in una zona A (italiana) e una B (appena fuori dalla città, fino ad includere il Quarnaro, e l'intera costa istriano-dalmata).
Dal '45 al '56 si registrò quindi l'esodo di centinaia di migliaia di profughi italiani dalla terre ormai slave. L'accoglienza in Patria non fu sempre benevola, sia per ragioni socio-economiche (lo Stato italiano stremato dalla guerra si trovava in una condizione di profonda indigenza economico-sociale e non era in grado di allestire un'organizzazione ricettiva adeguata per fornire ospitalità a questi compatrioti), sia per ragioni ideologiche (i comunisti italiani consideravano anticomunisti gli italiani fuggiti dalla Jugoslavia comunista, non comprendendo le ragioni per le quali avessero deliberato di lasciare un Paese che il PCI rappresentava come un esempio di realizzazione ottimale della dottrina comunista; famigerato l'episodio dello sciopero indetto dalle organizzazioni sindacali alla stazione di Bologna, durante il transito di un treno carico di profughi, per evitare di erogare i necessari rifornimenti e generi di soccorso ai passeggeri).
In merito ai rapporti italo-slavi dal dopoguerra ad oggi va segnalato che Tito è stato insignito del titolo onorifico di Cavaliere al merito della Repubblica italiana dal Presidente Saragat. Il Presidente della Repubblica Pertini, alla morte di Tito, si recò alle esequie baciando la bandiera jugoslava che ne avvolgeva il feretro.

3.Epigoni culturali della questione “Foibe”: i casi Sorel (Storia), Tommaseo (Letteratura Italiana), Patrizi (Filosofia)
Confinare, come pure per molti anni s'è fatto, la cura del tema delle “Foibe” al recinto ideologico di aree politiche, pro o contro una sua emersione storica e storiografica, significherebbe trascurare l'eterogenea composizione culturale dell'istanza storico-politica di fondo tra quelle che hanno sostenuto e contribuito a configurare la controversa questione dei confini orientali: l'irredentismo.

1) A dimostrazione del fatto che tale movimento politico, che si diede come obiettivo essenziale quello di ottenere la restituzione all'Italia dell'Istria, della Dalmazia e di parte della Venezia Giulia, tutelando e rappresentando le rivendicazioni della nazionalità italiana ivi presente da più tempo, fosse caratterizzato da correnti politiche variegate, quando non contrapposte, si riporta di seguito il contributo di George Sorel alla cosiddetta questione dalmata. Esponente del sindacalismo anarchico e rivoluzionario, egli rappresentò una delle voci della Sinistra radicale, estremista operativa tra Ottocento e Novecento (cui si ispirò lo stesso Mussolini nella prima fase della formazione del proprio corso politico): quella socialista e massimalista. In un articolo del 1919, intitolato La Dalmazia è terra italiana, il politico francese illustra le ragioni per le quali considerava legittima la rivendicazione italiana della Dalmazia e – soprattutto – i motivi per i quali tale italianità venisse ostracizzata dagli altri Paesi vincitori della I Guerra Mondiale. A suo modo di vedere i marxisti avrebbero dovuto appoggiare la battaglia per l'italianità della Dalmazia (e non è dato sapere se il fatto che Lenin avesse simpatizzato con la causa fiumana fosse dovuto anche alle ragioni addotte da Sorel) in quanto Francia e Gran Bretagna sostenevano la posizione jugoslava per ragioni eminentemente economiche: Stati capitalisti avevano tutto l'interesse a schierarsi con la Jugoslavia perché il mercato serbo era foraggiato e mantenuto dai capitali delle banche francesi. Un fronte politico anticapitalista non avrebbe potuto che avversare questo progetto. Inoltre, facendo questa volta riferimento ad un aspetto squisitamente politico, alla Gran Bretagna sarebbe da imputare, nel suo comportamento con gli slavi, esattamente la stessa spregiudicata disinvoltura, molto pragmatica dal punto di vista politico, mostrata con le popolazioni arabe durante la Prima Guerra Mondiale. Come a queste ultime aveva promesso l'indipendenza qualora si fossero schierate contro l'Impero Ottomano, alleatosi con i tedeschi e gli austriaci, così – disattendendo il Patto di Londra - la GB fece con gli slavi, promettendo loro l'indipendenza, anche di parte delle terre che sulla base del sopra citato patto sarebbero spettate all'Italia, in cambio della loro alleanza contro l'Austria e la Germania. Da notare che, mentre nel caso degli arabi le promesse fatte dagli inglesi attraverso il famoso agente segreto Lawrence d'Arabia non vennero mantenute (tanto che buona parte di quei territori furono sottoposti a mandati e protettorati anglo-francesi), nel caso degli slavi sin da subito l'Inghilterra (v. Conferenza di Corfù) mantenne un profilo di maggior rigore nell'ottemperare agli obblighi assunti con gli slavi a spese degli italiani. Infine, una seconda ragione avrebbe dovuto spingere i marxisti a schierarsi con gli italiani e le loro rivendicazioni: la lingua italiana si rivelava più funzionale alla ricerca ed al progresso tecnologico perché foriera di notevoli insegnamenti scientifici che hanno contribuito sin dal Rinascimento ad elaborare un lessico specifico. La lingua croata e slava in genere si mostrava invece più povera, inadeguata a promuovere il progresso industriale e più adatta al conservatorismo tipico delle aree rurali. Ma se secondo il marxismo la rivoluzione del proletariato può verificarsi soltanto nel contesto di un'economia industriale e capitalistica avanzata (e non prima), allora è chiaro che si sarebbe dovuta favorire l'etnia italiana per incentivare lo sviluppo industriale, prerequisito imprescindibile per il diffondersi e l'instaurazione di un regime rivoluzionario socialista, marxista e anticapitalista anche nei Balcani.

2) Da anni la contesa politica sui territori balcanici ha assunto un connotato particolare: abbandonato definitivamente il terreno militare e quello diplomatico, il confronto si gioca sul versante schiettamente culturale. Da parte ex jugoslava si tende ad avvalorare l'idea che le radici etniche dell'Istria e della Dalmazia siano slave, mostrando come una serie di figure intellettuali (artisti e filosofi) da sempre considerate rappresentative dell'italianità istriano-dalmata fossero in realtà di origine slava.
Il primo caso è quello di Niccolò Tommaseo. Patriota di Sebenico (Dalmazia), da sempre simbolo non solo di italianità, ma addirittura delle battaglie risorgimentali con cui lo Stato nazionale italiano, nelle varie forme proposte (federale o unitaria, monarchica o repubblicana, liberale, sociale o democratica), ha cercato di affrancarsi dal dominio austriaco conseguendo unità e indipendenza. Lo troviamo in particolare protagonista della Repubblica di Venezia (moti del 1848), che avrebbe dovuto nelle sue intenzioni costituire la componente iniziale di un più vasto organismo federale italiano. Optava per la soluzione federale, nel costruire il nuovo soggetto politico nazionale e istituzionale, perché la riteneva più rispettosa delle molteplici parti specifiche ricondotte a unità. Questa prospettiva politica era la logica conseguenza della sua impostazione gnoseologica. Secondo lui lo spirito che caratterizza l'essere umano è espressione di una correlazione e di una “convenienza” delle parti col tutto, con l'intero. In particolar modo, assecondando un principio di fondo dell'atmosfera culturale romantica, la Bellezza amorosa è il vincolo delle parti col tutto; la conoscenza del limite di ciascuna di queste parti è indizio della continuità con le altre, e quindi col tutto. La passione e l'impegno con cui si profuse nei moti risorgimentali è attestato anche dalla sua nota idiosincrasia nei confronti del Leopardi. Distanza, antipatia che nascono da ragioni sia filosofiche che politiche. Tommaseo giudicava Leopardi nefasto sia alla morale, sia alla Patria. Il Recanatese, ad avviso di Tommaseo, pensava che il dolore fosse inutile e, constatata la pervasività che lo caratterizzava, rendesse inutile pertanto l'intera vita. Tutto sarebbe vano, ragion per cui andrebbero valorizzate in forma compensativa le illusioni, l'unico vero bene capace di regalare all'uomo quel po' di felicità che gli è possibile provare. Orbene, questo modo di vedere le cose secondo Tommaseo corrisponderebbe ad una vera e propria corruzione dei giovani, inducendovi una sconsolata diffidenza, un ozioso lamento; atteggiamento che si sarebbe rivelato particolarmente dannoso proprio in un frangente storico, quello delle guerre d'indipendenza, in cui i giovani stessi avrebbero all'opposto avuto bisogno di idee forti e cariche affettive intense. A che pro infatti fare il patriota e sacrificarsi per la salvezza della Patria, se tutto fosse realmente vano? Queste le critiche di Tommaseo a Leopardi, e all'incongruenza che registrava tra la filosofia “nichilista” del Recanatese e le sue canzoni/poesie patriottiche dedicate all'Italia. Per Tommaseo il “dolore” assume invece connotati positivi: innanzitutto quello cristiano della redenzione. E qui s'inserisce l'abissale differenza tra i due scrittori rispetto al modo di inquadrare funzione e importanza della religiosità nella propria vita. Infatti quest'accezione era rubricata come ulteriormente illusoria dal Leopardi, perché classificabile come semplice esito della metafisica platonica che ha debilitato l'originaria forza e vitalità del mondo. Inoltre Tommaseo attribuiva al “dolore” il delicato ruolo di nobilitatore e valorizzatore dell'esistenza, in quanto vario, innovatore, ispiratore di sentimenti, pensieri e azioni radicali molto di più della gioia. La colpa maggiormente imputabile a Leopardi è quindi quella di aver scisso politica (che riguarda le istituzioni, la società e la nazione) e morale (che riguarda l'individuo). Ma la Nazione, secondo il Tommaseo, è un insieme di individui la cui carica morale può cambiare il corso degli imperi. Il sarcasmo di Tommaseo verso Leopardi, invero abbondantemente ricambiato, può essere attestato dalla compilazione del lemma “procombere” nel Dizionario della lingua italiana da lui curato; così ne definiva il significato: “l'adopera un verseggiatore moderno (NDR Leopardi) che per la Patria diceva di voler incontrare la morte. Non avendo egli dato saggio di sapere neanche sostenerne i dolori, la bravata appare non essere che retorica pedanteria”. Ora, proprio sull'italianità del Tommaseo sono stati aperti degli interrogativi, anche in territorio italiano. A questa diatriba ha provato a mettere fine, dandone nel contempo sintetica testimonianza, Ruggero Tommaseo, figlio di Niccolò, nel suo libro del 1933 dedicato al padre L'ora del Tommaseo. Egli riporta tutti gli argomenti proposti da coloro che prospettano una inascrivibilità di Tommaseo alla nazionalità italiana: a) l'origine slava del cognome (che sarebbe Tomasevic, o Tomasew), b) il fatto che avesse scritto un'operetta lirica in lingua slava (Scintille), nel presentare la quale dichiara di avere sangue slavo nelle vene, c) il fatto che lui stesso avesse dichiarato nelle sue memorie che avrebbe potuto, ma semplicemente non volle, far sollevare la Dalmazia contro l'Austria. Ad ognuno di questi argomenti il figlio oppone dei controargomenti esplicativi: a) il cognome Tommaseo viene ribadito come italiano, attestato già a Vicenza secoli prima in un avo della famiglia che aveva la carica di Avvocato Maggiore, b) le sue dichiarazioni di avere anche sangue slavo nelle vene, oltre ad attestare la sua concezione di italianità intesa come non declinabile in termini oppositivi o discriminatori nei confronti dell'etnia slava, nasceva dall'esigenza di aggirare la rigida vigilanza della censura austriaca, c) la mancata sommossa dalmata contro l'Austria è riconducibile non certo a fedeltà verso l'impero asburgico (come del resto anche l'esperienza veneziana dimostra), ma per mere ragioni di opportunità strategica e operativa: sarebbe infatti stata prematura e quindi fallimentare. Ai motivi per i quali gli indizi di estraneità alla nazionalità italiana sarebbero l'esito di una forzatura interpretativa spesso in malafede, si aggiungono ulteriori elementi di avallo dell'italianità di Tommaseo: a) nelle lettere private non censurate rivendica il suo spirito nazionale italiano, b) fu eletto Deputato (anche se per ragioni di salute si dimise dovendo rinunciare all'investitura popolare con una commovente lettera), c) è sepolto a Firenze insieme ad altri membri del Pantheon della storia italiana, d) redasse un dizionario di lingua italiana e fu esperto di linguistica italiana, e) come giornalista spesso ebbe problemi con editori o intellettuali che in qualche modo avversavano la cultura italiana, f) si batté per la restituzione della Corsica all'Italia.

Il secondo caso è quello di Francesco Patrizi, filosofo rinascimentale di Cherso del XV sec. Da qualche anno la società filosofica croata presenta il filosofo italiano in convegni accademici e occasioni pubbliche con il nome di Frane Petric. La Croazia gli ha dedicato una statua a Cherso con quell'intestazione. Si tratta dell'ennesimo capitolo di questa autentica battaglia culturale di revisione storica e nazionale, condotta in particolar modo dai croati, che coinvolge anche personaggi come Marco Polo, alias – nella versione croata ̵ Markus Polo da Curzola. Anche in questo caso i dati a supporto dell'italianità di Patrizi sono molteplici: opera a Ferrara, Pavia e Roma; scrive esclusivamente in volgare italiano o, al più, in latino; soprattutto incarna l'ideale filosofico umanistico-rinascimentale, ossia l'ultima marca culturale di spessore che l'Italia abbia offerto alla storia dell'umanità. Da buon umanista, acquistò un consistente patrimonio librario classico; la sua formazione fu eclettica, essendosi occupato di geometria, aritmetica, storia, idrologia, arte militare, retorica, filosofia. Il suo contributo più significativo, a proposito di quest'ultima, concerne la filosofia greca classica e consiste nel tentativo di recuperare il fondamento metafisico e divino del linguaggio, delle parole, facendone il riflesso dell'ordito reale secondo un modello specificamente matematico. Proprio per questo traccia una linea di continuità tra l'orfismo, il pitagorismo, alcune istanze della filosofia presocratica e Platone. Dopo Platone, per lui, s'interromperebbe la continuità filosofica: Aristotele, empio, a causa di un esasperato empirismo che va a detrimento della naturale propensione speculativa e metafisica della filosofia, non coglie infatti l'adeguato rapporto tra quest'ultima e la religione.

DF






















1Cavità naturale carsica, caverna sotterranea articolata spesso in un fitto reticolato di profondi cunicoli, prodotta dall'azione di erosione degli agenti climatici e atmosferici (acqua e vento). Utilizzata come discarica dai contadini slavi che vi riversavano vecchi utensili, suppellettili e carcasse d'animali attraverso un'apertura di pochi metri (una decina) detta “inghiottitoio”. La foiba di Basovizza, monumento nazionale, era invece una miniera scavata artificialmente.
2Va ricordato in proposito che precedentemente, tra '800 e '900, si era sviluppato un panslavismo serbo-russo che vagheggiava, per voce di Kozler, l'istituzione di una Grande Slovenia che avrebbe dovuto comprendere tutta la costa adriatica sul versante balcanico, Monfalcone, Grado e l'intera parte orientale del Friuli. L'irredentismo patriottico italiano di quel periodo nacque anche per reagire a tale progetto politico sloveno e alla sua manifesta ostilità nei confronti della nazione italiana.
3Questo spiega anche il contenuto della sentenza di condanna emanata dal Tribunale di Trieste contro i carnefici dei ferrovieri italiani. Tra le linee difensive esperite dagli avvocati degli imputati c'era anche il richiamo ad un Ordine Generale del Comando Alleato che sanciva la non punibilità (una sorta di amnistia) per coloro che si fossero macchiati di crimini commessi ai fini della liberazione del proprio territorio dalle forze di occupazione nazifasciste. Il giudice dichiarò infatti che i tre ferrovieri non potevano essere annoverati tra le forze militari (e non) d'invasione fascista; e questo per le ragioni sopra esposte (associate al fatto che i tre non hanno svolto alcun ruolo attivo, tanto meno da protagonisti, nella gestione politica del potere fascista nella Venezia Giulia e nelle coste adriatiche della penisola balcanica). Va doverosamente ricordato che l'estensore della sentenza, il giudice Thermes, lungi dal poter essere accusato di commistione con il Fascismo, fu un tenace persecutore di collaborazionisti con i regimi nazifascisti.
4Questo apre uno scenario di riflessione sul coinvolgimento di parte della Resistenza dell'area giuliana nelle tormentate vicende che coinvolsero i nostri connazionali tra il '43 e il '45. Le posizioni sono sostanzialmente due: la prima è quella di chi sostiene che l'estraneità della resistenza partigiana al quadro di responsabilità storiche sia ulteriormente confermata dalla fuoriuscita dei comunisti giuliani che avevano sposato la causa titina dal Comitato di Liberazione Nazionale – sezione giuliana. In tal senso la tesi di fondo è la seguente: i comunisti giuliani che si sono resi più o meno direttamente corresponsabili degli infoibamenti a danni di italiani (peraltro anche di altri comunisti e partigiani), pur avendo in precedenza attivamente preso parte al movimento storico-politico della Resistenza in quell'area, con la scelta dell'opzione titina avrebbero decretato la propria espulsione da tale fenomeno ponendo fine alla propria appartenenza alla realtà della militanza partigiana. Questa infatti si connota per il suo carattere patriottico e nazionale, per cui qualsiasi atto ostile alla popolazione italiana non solo non può esserle ascritto, ma configura semmai un tradimento della stessa. Questo spiega anche come mai e perché (in verità soprattutto negli ultimi anni) le associazioni e gli istituti della Resistenza giuliana non si siano sottratti a dibattiti e approfondimenti storiografici sul tema delle foibe e dell'esodo istriano, dalmata, giuliano, promuovendone anzi parecchi. La seconda posizione è quella di chi, invece, sottolinea l'organica e attiva presenza di tali soggetti nell'area della Resistenza; ai fini del disconoscimento di tale appartenenza non sarebbe quindi sufficiente l'adesione al progetto titino, sia perché l'auspicabilità del modello titino, in seguito, non mancò di suggestionare esponenti della Resistenza e delle associazioni partigiane giuliane che, evidentemente, non percepirono come irrimediabilmente avverso lo schieramento di cui furono vittime nel biennio tragico della prima metà degli anni '40, sia perché questi stessi contrasti tra partigiani, partigiani comunisti e comunisti giuliani filotitini lungi dall'identificare, distinguendoli, blocchi interni o esterni all'area della Resistenza, si configurano semmai come lotte intestine e vere e proprie guerre civili entro il fronte resistenziale, come attestato peraltro da episodi tragici quale quello dell'eccidio di Porzus. che citeremo dopo.
5Dalla delusione e dal rincrescimento per la conclusione di questo trattato prendono spunto le vibranti pagine del romanzo epistolare “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”, in cui Ugo Foscolo, attraverso l'alter ego del protagonista, denuncia la propria rabbia per il tradimento consumato da Napoleone a danno dei patrioti veneziani.
6Spesso, e a torto, si considera l'Irredentismo un movimento politico di esclusiva matrice nazionalistica. Se è vero che nell'Irredentismo tardo ottocentesco e soprattutto primo novecentesco il peso specifico esercitato dal partito nazionalista fu considerevole e le affinità tra questi due orientamenti politici dunque abbastanza marcate, è anche vero che le istanze di fondo dell'Irredentismo erano condivise anche da anarchici, socialisti (lo stesso sindacalista rivoluzionario, cui s'ispirò il socialista Mussolini, George Sorel scrisse un articolo sull'italianità della Dalmazia, v. oltre), liberali e cattolici. Va da sé, infine, che la confluenza dell'Irredentismo nel più vasto movimento risorgimentale depone per l'inquadramento delle sue origini più nel contesto del movimento politico culturale del patriottismo ottocentesco che non in quello del nazionalismo di fine Ottocento/inizio Novecento.
7Durante i moti risorgimentali del 1848 fonda con Daniele Manin la Repubblica di Venezia, ribellandosi all'Austria.
8Patto stipulato tra Italia e Triplice Intesa (Gran Bretagna, Francia e Russia) con cui la prima si impegnava ad entrare nel I conflitto mondiale schierandosi contro gli ex alleati (Austria e Germania). All'Italia vennero promessi Istria, Dalmazia (esclusa Fiume e inclusa Zara) e un protettorato su Valona (Albania).
9Dresda è una città tedesca, tristemente nota per essere stata letteralmente rasa al suolo dai bombardamenti anglo-americani alla fine della II Guerra Mondiale.