LEZIONE SUL “GIORNO
DEL RICORDO”
Dispensa didattica ad
uso interno
1.Indicazioni
normative
La
legge n.92 del 30 marzo del 2004 istituisce il Giorno del Ricordo,
riconoscendo la data del 10 febbraio come “solennità civile”. Il
testo della legge, con particolare riferimento ai primi tre commi
dell'art. 1, è il seguente:
1.
La
Repubblica riconosce il 10 febbraio quale «Giorno del ricordo» al
fine di conservare e rinnovare la
memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle
foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e
dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del
confine orientale.
2. Nella
giornata di cui al comma 1 sono previste iniziative per diffondere la
conoscenza dei tragici eventi presso i giovani delle scuole di ogni
ordine e grado. È altresì favorita, da parte di istituzioni ed
enti, la realizzazione di studi, convegni, incontri e dibattiti in
modo da conservare la memoria di quelle vicende. Tali iniziative
sono, inoltre, volte a valorizzare il patrimonio culturale, storico,
letterario e artistico degli italiani dell’Istria, di Fiume e delle
coste dalmate, in particolare ponendo in rilievo il contributo degli
stessi, negli anni trascorsi e negli anni presenti, allo sviluppo
sociale e culturale del territorio della costa nord-orientale
adriatica ed altresì a preservare le tradizioni delle comunità
istriano-dalmate residenti nel territorio nazionale e all’estero.
3. Il «Giorno
del ricordo» di cui al comma 1 è considerato solennità civile ai
sensi dell’articolo 3 della legge 27 maggio 1949, n.260.
Come
evidenziato dalla sottolineatura effettuata nel primo comma, la norma
focalizza l'attenzione su tre aspetti distinti, suggerendone una
chiara interconnessione: va sviluppata 1) la memoria di tutti gli
infoibati, dedicando specifica ma non esclusiva attenzione alle
vittime di nazionalità italiana; 2) quella del significativo esodo
di centinaia di migliaia di profughi istriani, dalmati e fiumani sia
– infine – 3) quella della complessa e controversa questione dei
confini orientali dello Stato italiano.
Per
mostrare i nessi che collegano queste tre tematiche, può essere
utile partire da eventi circostanziati della microstoria.
2.Il
quadro storico
2.1
Episodi storici
Nel
1943 Norma Cossetto è una giovane studentessa ventitreenne di
Lettere dell'Università di Padova. Italiana d'Istria, sta lavorando
in quei giorni alla sua tesi di laurea (che riguarda i giacimenti di
bauxite in Istria). Figlia di un funzionario del Partito Nazionale
Fascista, è
iscritta ai GUF (Gruppi Universitari Fascisti) ma non risultano
attività riconducibili ad una sua attiva militanza politica in
Istria. Far parte dei GUF era pressoché normale in quei tempi, in
quanto costituiva un viatico alla partecipazione ad iniziative
culturali di pregio (come per es. i Littoriali); lo testimonia
l'appartenenza a questi raggruppamenti di partito anche di figure che
diventeranno intellettuali di primo piano dell'antifascismo italiano
nel dopoguerra (ad es. Norberto Bobbio). Ai primi di ottobre Norma
viene sequestrata per quattro giorni dalla milizia politica titina (i
partigiani comunisti slavi del futuro dittatore della Jugoslavia
Tito), interrogata, torturata, seviziata e violentata ripetutamente
da una ventina di uomini. Insieme ad altri 26 compagni di prigionia
venne condotta il 5 ottobre in prossimità di una foiba1.
Legati da un filo di ferro, i prigionieri di solito vennero spinti
all'interno dell'inghiottitoio, non prima di essere ulteriormente
oltraggiati fisicamente, con il consolidato “sistema domino”
dettato sia da una forma di sadismo, sia dalla necessità di
economizzare il ricorso ai mezzi di soppressione (risparmiando ad es.
le pallottole): si sparava al primo della fila che, cadendo,
trascinava dentro la foiba gli altri ancora vivi. Queste 27 vittime
vengono annoverate nel conteggio di circa 5/700 altre vittime
italiane (soppresse nelle foibe e o nei campi di detenzione,
deportazione e concentramento) provocate in circa un mese, al ritmo
di una ventina al giorno in media, dalle milizie slave comuniste
all'indomani dell'armistizio del 8 settembre del 1943 nell'area della
Venezia Giulia, Trieste inclusa, e in quella istriano-dalmata. Nel
2005 il Presidente della Repubblica Ciampi ha conferito la Medaglia
d'Oro al Valor Civile alla ragazza istriana.
5
maggio 1945, la guerra è ormai formalmente conclusa per l'Italia con
la liberazione di Milano del 25 aprile e la successiva esecuzione nei
pressi di Dongo e Giulino di Mezzegra di alcuni gerarchi del Regime
e dello stesso Duce Mussolini (28 aprile). Tre membri della Milizia
Ferroviaria Fascista vengono arrestati dalla Sezione Criminale della
Difesa Popolare della Milizia Popolare di Liberazione (articolata a
sua volta in Comitato Popolare di Liberazione ed Esercito Popolare di
Liberazione) capeggiata da Tito. Anche in questo caso val la pena
ricordare che non si trattava di attivisti di partito o di quadri
militanti nel Partito Nazionale Fascista; semplicemente, per lavorare
in qualsiasi ufficio della Pubblica Amministrazione durante il
ventennio del Regime fascista occorreva necessariamente essere
iscritti all'unico Partito autorizzato ad operare politicamente sul
territorio nazionale che, nell'ottica del monopartitismo totalitario,
tendeva per alcuni versanti a sovrapporsi alle istituzioni statali.
I tre prigionieri vengono torturati e interrogati per una quindicina
di giorni in una locale caserma, quindi condotti presso una
locanda-trattoria di un villaggio rurale slavo; ivi sottoposti al
giudizio di un improvvisato tribunale popolare i cui giudici altri
non erano in maggioranza che gli avventori dell'osteria. Furono
condannati a morte. Sentenza eseguita immediatamente presso una
foiba. Le tre vittime fanno parte del tragico bilancio dei quaranta
giorni di occupazione di Trieste (dal maggio al giugno del 1945) da
parte delle truppe titine.
2.2
Dati storici e orientamenti storiografici
Ancora
oggi non si dispone di cifre ufficiali concordi sull'entità esatta
del numero di vittime del tragico triennio 1943-1945. Gli esuli
istriani e dalmati che abbandonarono i propri beni, le proprie terre
e le case per sfuggire alla tragica caccia all'uomo allestita dai
partigiani di Tito furono tra i 250.000 e i 350.000 circa; i morti e
i dispersi vanno dai 5.000 ai 10.000.
Al
di là delle difficoltà oggettive che si frappongono all'esatta
ricostruzione di quanto avvenuto (documenti ufficiali mancanti o
secretati e quindi non disponibili alla consultazione, difficili
rapporti politici – soprattutto in ordine a questo argomento –
tra Italia e Jugoslavia nel dopoguerra), a rendere ancora più
difficoltoso il lavoro di ricognizione storica (e in certi casi anche
giudiziaria) è il frastagliato panorama storiografico riconducibile
alle diverse posizioni in merito assunte dagli storici. Tale
eterogeneità può, generalizzando, essere sintetizzata in 3
prospettive essenziali.
a)
esiste una storiografia negazionista delle foibe, di matrice
prettamente slava ma che non ha mancato di reclutare adepti anche in
ricercatori italiani accademici e non (di non trascurabile entità,
considerando la sitografia internet disponibile riconducibile il più
delle volte ad aree politicamente e ideologicamente di ben definita
connotazione). Per tale filone non esiste una questione “Foibe”.
Non ci fu nessun eccidio, al massimo si registrarono poche decine di
casi confinabili nell'ambito della cronaca giudiziaria e non storica,
imputabili a schegge criminali impazzite e fuori controllo
dell'organizzazione politica/poliziesca di Tito.
b)
V'è poi un filone storiografico slavo e italiano riduzionista che,
pur non negando le cifre circolanti sugli eccidi delle foibe, tende a
ricondurli, condannandoli comunque, ad una sorta di comprensibile, ma
non giustificabile, reazione slava alle violenze perpetrate dal
Regime fascista (e dallo stesso esercito italiano) nei confronti
degli slavi durante il periodo di gestione del potere da parte degli
italiani su ampie aree territoriali a maggioranza slava. Si tratta di
un filone che ha avuto ed ha un certo seguito anche nella
manualistica scolastica e trova i suoi esponenti di maggior rilievo
negli storici A.Camera e R.Fabietti, e oggi nello stesso De Luna che
– infatti – introduce
la trattazione delle Foibe citando come antefatto esplicativo la
cosiddetta strage di Lubiana2.
Nel capoluogo sloveno durante l'occupazione italiana sviluppatasi
nell'arco di 29 mesi sono state conteggiate circa 13.000 vittime
slovene, cifra cui si perviene sia attraverso documentazioni formali
e informali (lettere private dei soldati, ad es.) dell'esercito
italiano, sia attraverso bilanci tratteggiati dalla storiografia
slovena.
Sono
estremamente limitati i casi di rischioso scantonamento di tale
filone in atteggiamenti pseudogiustificazionisti; collaterale a tale
prospettiva riduzionista, che riconduce al fascismo la causa prima
dell'acuirsi delle tensioni e delle violenze etnico-politiche
nell'area balcanica, è la posizione di chi, come R. Pupo, sottolinea
– condannandolo – il carattere indiscriminatamente antitaliano
delle persecuzioni slave titine, evidenziandone al contempo
l'estraneità dei movimenti di Resistenza partigiana ai quali non
sarebbe imputabile alcuna forma di connivenza, complicità o
responsabilità in merito.
c)
C'è infine una produzione editoriale, inizialmente non accreditata
nei dipartimenti di ricerca storica delle Università italiane, che
ha indagato e denunciato il fenomeno già a metà degli anni '40 del
'900. Anche in questo caso sono ridotti, seppur presenti, i casi di
enfatizzazione politica e ideologica del fenomeno che si verficano
quando questo, ferma restando la sua indiscutibile tragicità, viene
catalogato in modo eccessivo come “genocidio” attraverso
un'esagerazione del numero delle vittime o dei profughi coinvolti
nell'esodo dalle provincie orientali. Più frequente invece è
l'atteggiamento di accuratezza nell'indagine che ha consentito di
preservare i dati storici, mettendoli poi a disposizione di quella
storiografia di ambito universitario che ha cominciato ad occuparsi
sistematicamente della questione, riservandole spazi sempre più ampi
e approfonditi di ricerca a partire dagli anni '90 del secolo scorso
(vedasi i lavori sulla polizia politica titina dello storico
recentemente scomparso Klinger, o i contrubuti di Raoul Pupo
dell'Università di Trieste). Protagonisti di quest'opera di custodia
e trasmissione di informazioni storiche sono associazioni di esuli,
riviste, fondazioni, circoli culturali di ex combattenti che hanno
accumulato e archiviato materiale storico oggi in parte disponibile
anche nel WEB. Tale lavoro di promozione di conoscenza e coscienza
storica ha poi avuto riflessi anche sul piano politico (con il varo
della Legge 92/2004) e didattico (con lo spazio riservato da ormai
quasi tutti i manuali di storiografia ad un fenomeno invece
precedentemente negletto).
Cosa
emerge dal confronto di queste tre prospettive, tra loro e con i dati
di cui disponiamo?
Il
primo elemento su cui concentrare l'attenzione è la lettura del
fenomeno “Foibe” come espressione di una legittima operazione di
liberazione, nonché di rivalsa politica e militare delle popolazioni
slave contro l'oppressore fascista .
Tale
prospettiva è spesso, ma non sempre, associata ad una sorta di
corollario: la sovrapposizione o identificazione tra “italiano” e
“fascista”.
Essa
denuncia diversi punti di criticità.
E
ciò per alcune semplici ragioni: 1) non tutte le vittime erano
fasciste3
(a volte non lo erano nemmeno quelle in possesso di una tessera,
condizione quasi necessaria alla sopravvivenza economica nel
territorio statale italiano; meno che mai lo erano quelle – e ce ne
furono tantissime – prive della tessera del PNF); 2) alcune delle
vittime non solo non erano fasciste, erano anzi antifasciste. Si
registrarono infatti vittime anche tra gli esponenti del Comitato di
Liberazione Nazionale - Alta Italia, organizzazione politica delle
formazioni politico-militari partigiane italiane. Alcune delle
vittime appartenevano allo stesso comunismo della Venezia Giulia,
dimostrando così come all'interno della guerra civile di liberazione
antifascista si fosse consumata un'ulteriore guerra civile fratricida
combattuta tra le formazioni comuniste della Venezia Giulia,
dell'Istria e della Dalmazia che vide contrapposti chi si schierò
con i partigiani comunisti slavi, dando vita ad un serrato
collaborazionismo nelle operazioni di rastrellamento condotte da
questi ultimi, e chi invece tentò di ostacolare il dilagare delle
truppe titine in quelle aree territoriali4;
3) alcuni fascisti, non residenti in Istria o Dalmazia ma caduti
nelle reti poliziesche titine trovandosi per lavoro in trasferta,
furono assolti o comunque rilasciati dalla polizia slava (che si
limitò ad emettere provvedimenti di espulsione); 4) infine, com'è
stato recentemente ricordato anche dal Presidente della Repubblica
italiana Mattarella, i partigiani di Tito fecero un gran numero di
vittime anche tra gli stessi slavi (di ideologia politica avversa a
quella del comunismo non ortodosso di Tito).
Dati
alla mano, è certamente innegabile che oggetto delle
attenzioni di Tito furono in netta prevalenza gli Italiani. E lo
furono in quanto Italiani, indipendentemente dal loro credo politico
o dal grado di “compromissione” con il crollato regime fascista.
Perché?
È
a questo proposito che si spiega il riferimento normativo alla
complessa questione dei
confini orientali,
ossia – in altre parole – al controverso problema dell'italianità
dell'Istria e della Dalmazia e della convivenza tra italiani e slavi
in quell'area geopolitica.
Inoltre
la focalizzazione sulle responsabilità storico-politiche del regime
fascista e delle sue istanze nazionaliste può ingenerare l'equivoco
di confondere il detonatore con i detonanti e la detonazione stessa.
La domanda cioè che in sede storiografica va posta è: quale data,
quale periodo storico va considerato decisivo per l'esplodere della
questione italo-balcanica? Comincia tutto col fascismo?Pur
degenerando tutto con esso, e con la scelta fallimentare e perdente
del conflitto mondiale, quali sono le radici storiche e culturali più
profonde del fenomeno che esplose negli anni'40? Il regime fascista è
senz'altro convenzionalmente identificato dalla storiografia come il
soggetto che con le sue scelte nazionaliste e discrimnatorie si è
posto come causa più prossima e diretta, e in tal senso più
concretamente condizionante, del dramma vissuto dalle popolazioni
balcaniche (italiane comprese) nella prima metà del Novecento, ma
individuarlo come unica causa significherebbe trascurare un lungo
processo di sedimentazione storica pregressa dando luogo così ad una
forma evidente di semplificazione/astrazione analitica in sede di
ricerca e ricostruzione storica: di fronte ad un evento storico
complesso e articolato le cause non sono né singole e tanto meno le
ultime in ordine cronologico (così come la sconsideratezza criminale
di Princip e dell'irredentismo serbo non può essere reputabile come
la sola causa della I guerra Mondiale). Lo stratificarsi nel corso
del tempo di dinamiche e fattori eterogenei a monte di un fenomeno
storico variamente sfaccettato rende parziale l'attribuzione ad uno
solo di essi, per quanto grave, la colpa di rappresentare il punto di
rottura del fragile e critico equilibrio che lo caratterizza. Crisi
invece comprensibile soltanto se inquadrata come lo sbocco
prevedibile di un processo di lunga incubazione (precedente rispetto
all'affermarsi del regime fascista). Insomma, accade in storiografia
quello che accade con il cosiddetto paradosso del mucchio in
filosofia: se un granello, due granelli, tre granelli non
costituiscono un mucchio, qual è il numero esatto a partire dal
quale possiamo dire che più granelli, una moltitudine di essi
comincia a costituire, diventa mucchio? Ebbene, di fronte al
sovrapporsi, a tratti incalzante, di aspetti e coefficenti storici
diversi a monte di un certo evento, quale di essi si configurerebbe
come quello “decisivo” nel determinare la generazione del
fenomeno in questione?
2.3 Irredentismo: excursus
storico
Dal
III sec. a.c. al VI sec. d.c. la Dalmazia
assume lo status
giuridico e politico di Provincia romana di rango senatorio prima e
imperiale poi, diventando in seguito “tema” dell'Impero bizantino
con a capo uno specifico Stratego. La romanizzazione della Dalmazia
scaturisce dalle due guerre illiriche combattute nel III sec. a.c.
per reagire sia alle tendenze espansionistiche del regno d'Illiria,
sia alle scorrerie piratesche degli Illiri nell'Adriatico ai danni
dei mercantili romani, con episodi di violenza criminale perpetrata
anche ai danni di legati di Roma. L'Istria
viene invece conquistata dai romani e strappata agli Istri nel 178
a.c., integralmente annessa alla X
Regio
Italia,
Venetia
et
Istria,
con deduzione di nuove colonie (Capodistria, Pola ecc.). Anche questa
guerra trova tra le sue cause principali la risposta romana alle
scorrerie condotte dagli Istri presso la colonia di Aquileia. Dopo la
parentesi del dominio gotico di Teodorico (e il precedente crollo
sotto i colpi degli Unni di Attila) anche l'Istria diventa “tema”
bizantino – a seguito della riconquista giustinianea del VI sec.
con la guerra cosiddetta greco-gotica –
incorporata con Venezia nell'Esarcato di Ravenna, costituendo così
un governatorato
italiano
per l'Imperatore di Bisanzio. A proposito dell'Istria viene dunque
riconfermata in modo diretto la sua integrale appartenenza, già
sancita durante l'Impero augusteo, al contesto geografico e politico
italiano. Durante il secolo VIII tale italianità viene ribadita
dalla collocazione di quest'area entro i confini del Regno
d'Italia,
facente parte della costruzione imperiale carolingia denominata Sacro
Romano Impero (del Regno d'Italia era Sovrano il figlio di Carlo
Magno, Pipino), mentre l'Imperatore rinuncia alla sovranità sulla
Dalmazia che viene, con la stessa città di Zara, lasciata all'Impero
bizantino in cambio della ratifica da parte di questo dell'autorità
carolingia sull'Impero d'Occidente (pace di Aquisgrana 812). Da
questo momento nel corso dei successivi 4 secoli la Dalmazia
transiterà dal dominio bizantino a quello veneziano. Venezia, resasi
autonoma sotto la guida del Doge, acquisirà l'egemonia
sull'Adriatico raccordando le sue azioni politiche in quell'area con
i Franchi prima e con gli ottonidi in seguito (quando il Sacro Romano
Impero Germanico farà dell'Istria un marchesato provinciale
italiano) che controllavano l'Istria. Infine, nel XIII sec. anche
l'Istria cadrà sotto il controllo di Venezia. Ma, a sua volta, nel
XVIII sec. Venezia viene posta sotto il controllo dell'Impero
austriaco a seguito del Trattato di Campoformio5
del 1797, stipulato tra Napoleone – per conto della Francia, in
qualità di comandante generale dell'esercito francese in Italia –
e l'Impero Austro-Ungarico. Tutti i suoi territori ricadono dunque
giurisdizionalmente entro l'Impero austriaco fino al 1805 allorquando
Napoleone istituirà il Regno
d'Italia
con capitale Milano, e con la pace di Presburgo annetterà Istria e
Dalmazia a tale regno. Poi, nel 1809, Istria e Dalmazia diventano
province illiriche direttamente dipendenti dall'Impero napoleonico e
non più annesse al Regno d'Italia. Crollato l'Impero napoleonico,
nel 1815 al Congresso di Vienna si sancì l'appartenenza del Veneto,
dell'Istria e della Dalmazia all'Impero Austro-Ungarico.
Fino agli inizi del XIX sec.
l'italianità di quei territori viene pertanto stabilita e confermata
in almeno 3 occasioni storicamente significative: durante l'Impero
romano, quello carolingio e quello napoleonico.
E gli slavi? I problemi di
convivenza tra etnia slava e italiana sono spesso riconducibili a
scelte politiche che coinvolgono soggetti istituzionali “altri”
(a volte anche superiori). I primi insediamenti si registrano nel VII
sec. (quasi mille anni dopo dunque i primi stanziamenti romani),
allorquando l'Imperatore bizantino Eraclio con un rescritto autorizzò
gli slavi a stanziarsi nell'entroterra dalmata purché s'impegnassero
a contrastare le incursioni degli Avari (tribù barbarica a loro
precedentemente alleata). Altre allocazioni slave furono autorizzate
dai duchi franchi e dai veneziani che da un lato concessero il
permesso di fondare ville e dall'altro dovettero fronteggiare le
razzie degli Uscocchi nella baia del Quarnaro (pirati slavi che
spesso operavano d'intesa con l'Impero austriaco). In particolar
modo, lontano dalle fasce costiere e dunque nell'entroterra, si
consolidano tra il IX e il X sec. alcuni regni slavi (croati). I
pontefici spingevano al fine di sottrarre al Doge di Venezia il
titolo di Dux della Dalmazia, volendo conferire – senza
successo – il titolo di
Re della Dalmazia ai sovrani croati.
La
politica
austriaca
di dominio sul territorio, protrattosi per un secolo (dal 1815 al
1918), contribuì – unitamente a quella della Chiesa – ad
esarcerbare i contrasti tra popolazione slava e italiana determinando
tra l'altro un rimarchevole cambiamento sul senso e sulla direzione
della lotta politica degli italiani in Istria e Dalmazia. Si transitò
dall'Autonomismo,
ossia una lotta finalizzata prioritariamente all'indipendenza
dell'Istria e della Dalmazia dall'Impero austriaco con un progetto di
autogestione politica che coinvolgesse tutte le etnie presenti (slava
e italiana), all'Irredentismo,
posizione politica che considerava invece prioritario il recupero di
queste regioni da parte dell'Italia all'insegna della conferma delle
radici e delle tradizioni storiche che assegnavano alla nazionalità
italiana una posizione di preminenza in esse6.
A parere dell'Irredentismo i confini politici dello Stato-Nazione
italiano dovevano coincidere il più possibile con i confini naturali
della regione geografica italiana. Ciò significava per esempio
spostare la linea del confine orientale dall'Isonzo alle Alpi Giulie,
più adatte alla funzione di difesa del suolo patrio da attacchi
stranieri. Si sviluppa un movimento politico che eserciterà un ruolo
di primaria importanza nelle battaglie risorgimentali ottocentesche
volte al conseguimento dell'unità e dell'indipendenza (innanzitutto
dall'Austria) da parte della nazione italiana con la nascita del
relativo Stato. Uomini come Niccolò Tommaseo7,
dalmata, saranno eroici protagonisti di questa epopea risorgimentale
combattendo ad es. nella Legione dalmato-istriana che si
contraddistinse per la passione e l'impegno profuso nelle sommosse
italiane antiaustriache. L'Austria, dal canto suo, era caratterizzata
all'interno dell'Impero dal cosiddetto trialismo, la necessità cioè
di gestire la convivenza tra tre etnie differenti: tedesca, magiara
(ungherese) e slava. Coerentemente
con l'idea di Metternich, Cancelliere austriaco protagonista del
Congresso di Vienna, gli austriaci non si ponevano il problema della
nazionalità italiana, dato che “Italia” per la classe politica
austriaca era solo un'espressione geografica. Per reagire
all'irredentismo italiano (che toccherà il suo apice nella seconda
metà dell'Ottocento) gli Austriaci faranno leva sull'etnia slava,
compensando con una serie di concessioni a favore di questa la
posizione fino ad allora di preminenza culturale degli italiani: se
fino al XIX sec. la lingua ufficiale in ambito
politico-amministrativo era il latino o l'italiano, tanto che spesso
i banditori per le strade nel dare comunicazione dei provvedimenti
legislativi e gli avvocati nei processi per difendere il proprio
patrocinato slavo dovevano ricorrere agli interpreti, nell'Ottocento
il serbo viene ufficialmente affiancato all'Italiano. Gli austriaci,
inoltre, per reprimere le organizzazioni politiche italiane
irredentiste si avvalevano di reggimenti croati che svolgevano il
proprio compito spesso con zelo eccessivo. La Chiesa, entrata in
conflitto con lo Stato italiano dopo la Breccia di Porta Pia del
1870, non mancò di appoggiare le rivendicazioni slave attraverso una
fitta opera di propaganda filoaustriaca e filoslava condotta nelle
parrocchie delle varie diocesi dalmate e istriane. Vennero
ridisegnate le circoscrizioni elettorali e venne riformata la stessa
legge elettorale per favorire la maggioranza slavofona (ma non nelle
città a maggioranza italiana) e, in ultimo, vennero promossi
ulteriori stanziamenti di slavi nell'entroterra. A ciò si
accompagnarono anche aggressioni violente come quelle patite dai
marinai italiani a Sebenico nel 1869, o l'incendio del teatro
comunale italiano di Zara. Durante la I Guerra Mondiale venne
arrestato e deportato l'intero consiglio comunale italiano di Zara.
Quando con il Patto di Londra8
nel 1915 venne riproposta, in chiave antiaustriaca, la questione
della sovranità italiana sui territori dalmati e istriani, la
situazione delineatasi nei Balcani era la seguente: la Bosnia
Erzegovina era stata annessa all'Austria nel 1908, mentre già dal
1875 Serbia e Montenegro avevano ottenuto l'indipendenza dall'Impero
Ottomano grazie all'appoggio della Russia. La penisola Balcanica,
contesa tra Austria e Russia e articolata in una serie di Stati e
staterelli autonomi (spesso tali soltanto formalmente, perché in
realtà satelliti dei due grandi Imperi), costituiva una vera bomba
politica pronta ad esplodere, le cui avvisaglie si manifestarono già
tra il 1912 e il 1913 con una serie di conflitti con cui s'impose la
cosiddetta “questione balcanica” alle cancellerie europee,
dopo un primo tentativo di soluzione diplomatica transitoria
sperimentata da Bismarck (Cancelliere prussiano) durante il Congresso
di Berlino del 1878. Non a caso la I Guerra Mondiale avrà origine
proprio nei Balcani con l'attentato di Sarajevo (capitale bosniaca).
Durante la guerra, nel 1917 a Corfù fu organizzata una Conferenza
che sancì la nascita dello Stato della Jugoslavia, una monarchia
federale che comprendeva tre nazioni: croata, serba e slovena.
L'interesse dell'Inghilterra era creare un soggetto politico autonomo
che ridimensionasse considerevolmente e mettesse in crisi il dominio
austriaco (e in fondo anche quello russo) sui Balcani, non tenendo
però conto che questo avrebbe comportato gravi problemi di
coesistenza con le aspirazioni italiane; la Jugoslavia infatti avanzò
quasi subito pretese su Fiume e Zara (quest'ultima promessa
all'Italia) che l'Inghilterra di fatto avallò (la Francia
addirittura appoggiava le rivendicazioni slave su Trieste). E infatti
conclusasi la guerra, durante la Conferenza di pace, all'Italia, che
le rivendicava, furono negate sia Fiume (non rientrante nel Patto di
Londra, ma che con un plebiscito aveva dichiarato di voler essere
annessa all'Italia sulla base del principio di autodeterminazione dei
popoli che il Presidente degli USA Wilson, entrando in guerra, aveva
sancito nei suoi 14 punti programmatici come principio della politica
internazionale fondamentale su cui costruire l'Europa postbellica),
la quale venne dichiarata città libera (né italiana, né jugoslava,
soddisfacendo così anche le richieste dei cosiddetti autonomisti di
Zanella, fiero avversario politico dei nazionalisti italiani fiumani)
sia – inizialmente – Zara.
A questa “vittoria mutilata”
reagì D'Annunzio con la cosiddetta impresa dei legionari di
Fiume. Reduci della I Guerra Mondiale, militari e marinai
ammutinatisi si arruolarono volontariamente nelle fila dannunziane e
nel 1919 partirono da Ronchi, occuparono Fiume dando vita alla
cosiddetta Reggenza del Quarnaro (nome del Lido su cui si affacciava
la città). Ad appoggiare politicamente ed economicamente l'impresa
furono i nazionalisti, gli irredentisti e i fascisti di Mussolini. Il
piano originario prevedeva la contemporanea sollevazione in Italia
contro il governo per dare vita ad un Regime modellato su principi
che, in parte, verranno attuati soltanto 6 anni dopo con la nascita
della dittatura fascista. La costituzione della città di Fiume
prevedeva l'istituzione di Corporazioni, un rettorato di governo con
a capo un Comandante con supremi poteri operativi in caso di crisi.
La proprietà privata venne considerata per la sua utilità sociale e
non come dominio delle persone sulle cose; fu proclamata la libertà
di stampa, di coscienza, di riunione e sancito il divieto di
discriminazioni sessuali, religiose, etniche e sociali. La città
venne assediata dalle forze armate italiane, essendo il governo di
Nitti in grave imbarazzo di fronte alla diplomazia internazionale.
Con un embargo (che D'Annunzio cercò di aggirare con la
pirateria uscocca) si produsse una gravissima crisi economica, finché
Giolitti non fece sgombrare la città a cannonate. La valutazione
politica e storiografica dell'impresa fiumana è variegata. Secondo
alcune versioni costituì una prova generale della violenza fascista
e nazionalista; per altri un fecondo laboratorio politico in cui si
mescolarono istanze nazionaliste, anarchiche, fasciste e socialiste
(Lenin apprezzò e incoraggiò l'esperienza politica fiumana) e che
riprodusse tratti significativi del Risorgimento, anche quelli
tragici (vedi lo scontro tra Giolitti e D'Annunzio che richiama per
analogia quello fratricida sull'Aspromonte tra l'esercito di Cialdini
e Garibaldi). Ma sempre nel 1919 nel Regno croato, serbo e sloveno
non mancarono atti di aggressione e violenze nei confronti dei
dalmati ex italiani (la famiglia della futura stilista Mila Schön,
ad es., dovette abbandonare Traù nella Dalmazia jugoslava a causa
dell'attentato subito dalla sua famiglia). Col Trattato di Rapallo
del 1920 Fiume fu dichiarata città libera e Zara data all'Italia.
Nel 1924 Mussolini a Roma riuscì ad ottenere il riconoscimento
dell'italianità di Fiume (il che provocò una serie di aggressioni e
manifestazioni antitaliane a Spalato). La politica fascista fu
caratterizzata per quasi un ventennio da un indirizzo nazionalista
che assunse le forme, anche accentuate, di antislavismo: furono
chiuse le scuole slave, soppressi partiti e associazioni culturali
slave, operate aggressioni squadristiche nei confronti degli slavi.
Va puntualizzato che si trattava di strategie omologhe a quelle che
il Regno di Jugoslavia continuava a praticare nei confronti degli
italiani, tanto da causare in quei vent'anni un flusso costante di
immigrazione dalle regioni jugoslave dell'entroterra verso le città
italiane dalmate e istriane della fascia costiera. Non si registrano
invece consistenti ondate migratorie dai grossi centri urbani
costieri italiani verso le aree territoriali jugoslave (un ufficioso
censimento del 1937 non attesta decrementi della presenza slava in
territorio italiano istriano-dalmata). Nel 1941 dai Balcani parte la
controffensiva tedesco-italiana nei confronti dell'esercito greco
che, reagendo all'attacco italiano del 1940, si era spinto fino alle
porte dell'Albania (diventata parte dell'Impero fascista italiano nel
1939, con lo status giuridico, politico e amministrativo di
“regno”). L'Erzegovina venne annessa all'Italia (mentre il
Montenegro divenne un protettorato nazista e Serbia e Bosnia degli
Stati satelliti autonomi filonazisti). È
proprio in questo periodo che Tito mette a punto la sua strategia di
liberazione della Jugoslavia dal controllo italo-tedesco. Essa
prevedeva a) internamente la compattazione dei combattenti slavi,
unificandone le tre etnie principali (serba, croata e bosniaca) in
virtù dell'identificazione di un nemico comune, l'Italiano, tale sia
per ragioni nazionali o etniche (straniero), sia per ragioni
politiche (le discrasie socio-economiche tra la ruralità slava e la
nazionalità italiana prevalentemente medio-alto borghese e
urbanizzata fu strumentalizzata da Tito per dipingere l'Italiano
fascista come l'anticomunista per eccellenza e, in quanto tale,
sfruttatore del lavoratore slavo); b) esternamente, facendo leva
proprio sulla caratura ideologica comunista assegnata alla sua
missione storica di liberazione jugoslava, mirava a spaccare il
fronte dei partigiani italiani volgendo le brigate comuniste contro
quelle cattoliche e contro le formazioni liberali (a Porzus si
consumò una strage di partigiani cattolici, della Brigata Osoppo, da
parte dei partigiani comunisti italiani filotitini appartenenti alla
Brigata Garibaldi; in tale eccidio perirono uno zio del cantautore
Francesco De Gregori e il fratello del regista e scrittore Pasolini).
Il
Governatore fascista Bastianini (gerarca e ministro del Regime
fascista), memore delle negative conseguenze delle pregresse
strategie fasciste amministrò i nuovi territori concedendo limitate
aperture, per quanto possibile in un regime che restava comunque
ultranazionalista, alla nazionalità slava: equiparò la lingua
serbo-croata a quella italiana, mantenne i burocrati slavi al loro
posto, così come le residue scuole slave all'epoca ancora operative.
Ma tra il 1943, dopo l'armistizio di settembre e la parentesi del
Litorale tedesco, e il 1945 (fine della guerra) le violenze titine
furono costanti. Lo stesso campo di concentramento della risiera di
San Sabba presso Trieste fu inizialmente allestito per internarvi i
partigiani slavi e italiani che si erano resi protagonisti degli
attacchi a Trieste e a quelli in Istria e Dalmazia contro gli
italiani. La città di Zara, passata nel 1944 da 24.000 a 2.000
abitanti per la fuga e l'esodo degli italiani attaccati dalle
formazione titine, fu sottoposta dalle forze Alleate ad un fitto
bombardamento pur non rivestendo nessun ruolo strategico utile ai
fini dello svolgimento del conflitto, come Tito fece invece credere
ai comandi alleati, bensì soltanto per ultimare la pulizia etnica
delle residue comunità di Italiani presenti. Tale fu l'intensità e
la devastazione dei bombardamenti che la città venne praticamente
rasa al suolo, tanto da essere denominata la Dresda9
d'Adriatico. Contemporaneamente furono allestiti campi di
concentramento degli italiani vittime dei rastrellamenti titini (v.
Campo di Pisino).
Col
Trattato di Parigi del 1947 tutte le città a maggioranza italiane
furono assegnate alla Jugoslavia di Tito: furono chiuse le scuole
italiane e fu proibito l'uso della lingua italiana. A Londra nel 1954
si sancì il passaggio della zona triestina controllata dagli Alleati
all'Italia. A Osimo nel 1975 si ratificò la divisione dell'area di
Trieste in una zona A (italiana) e una B (appena fuori dalla città,
fino ad includere il Quarnaro, e l'intera costa istriano-dalmata).
Dal
'45 al '56 si registrò quindi l'esodo di centinaia di migliaia di
profughi italiani dalla terre ormai slave. L'accoglienza in Patria
non fu sempre benevola, sia per ragioni socio-economiche (lo Stato
italiano stremato dalla guerra si trovava in una condizione di
profonda indigenza economico-sociale e non era in grado di allestire
un'organizzazione ricettiva adeguata per fornire ospitalità a questi
compatrioti), sia per ragioni ideologiche (i comunisti italiani
consideravano anticomunisti gli italiani fuggiti dalla Jugoslavia
comunista, non comprendendo le ragioni per le quali avessero
deliberato di lasciare un Paese che il PCI rappresentava come un
esempio di realizzazione ottimale della dottrina comunista;
famigerato l'episodio dello sciopero indetto dalle organizzazioni
sindacali alla stazione di Bologna, durante il transito di un treno
carico di profughi, per evitare di erogare i necessari rifornimenti e
generi di soccorso ai passeggeri).
In
merito ai rapporti italo-slavi dal dopoguerra ad oggi va segnalato
che Tito è stato insignito del titolo onorifico di Cavaliere al
merito della Repubblica italiana dal Presidente Saragat. Il
Presidente della Repubblica Pertini, alla morte di Tito, si recò
alle esequie baciando la bandiera jugoslava che ne avvolgeva il
feretro.
3.Epigoni
culturali della questione “Foibe”: i casi Sorel (Storia),
Tommaseo (Letteratura Italiana), Patrizi (Filosofia)
Confinare, come pure per molti
anni s'è fatto, la cura del tema delle “Foibe” al recinto
ideologico di aree politiche, pro o contro una sua emersione storica
e storiografica, significherebbe trascurare l'eterogenea composizione
culturale dell'istanza storico-politica di fondo tra quelle che hanno
sostenuto e contribuito a configurare la controversa questione dei
confini orientali: l'irredentismo.
1)
A dimostrazione del fatto che tale movimento politico, che si diede
come obiettivo essenziale quello di ottenere la restituzione
all'Italia dell'Istria, della Dalmazia e di parte della Venezia
Giulia, tutelando e rappresentando le rivendicazioni della
nazionalità italiana ivi presente da più tempo, fosse
caratterizzato da correnti politiche variegate, quando non
contrapposte, si riporta di seguito il contributo di George
Sorel alla cosiddetta
questione dalmata. Esponente del sindacalismo anarchico e
rivoluzionario, egli rappresentò una delle voci della Sinistra
radicale, estremista operativa tra Ottocento e Novecento (cui si
ispirò lo stesso Mussolini nella prima fase della formazione del
proprio corso politico): quella socialista e massimalista. In un
articolo del 1919, intitolato La Dalmazia è terra
italiana, il politico francese
illustra le ragioni per le quali considerava legittima la
rivendicazione italiana della Dalmazia e – soprattutto – i motivi
per i quali tale italianità venisse ostracizzata dagli altri Paesi
vincitori della I Guerra Mondiale. A suo modo di vedere i marxisti
avrebbero dovuto appoggiare la battaglia per l'italianità della
Dalmazia (e non è dato sapere se il fatto che Lenin avesse
simpatizzato con la causa fiumana fosse dovuto anche alle ragioni
addotte da Sorel) in quanto Francia e Gran Bretagna sostenevano la
posizione jugoslava per ragioni eminentemente economiche: Stati
capitalisti avevano tutto l'interesse a schierarsi con la Jugoslavia
perché il mercato serbo era foraggiato e mantenuto dai capitali
delle banche francesi. Un fronte politico anticapitalista non avrebbe
potuto che avversare questo progetto. Inoltre, facendo questa volta
riferimento ad un aspetto squisitamente politico, alla Gran Bretagna
sarebbe da imputare, nel suo comportamento con gli slavi, esattamente
la stessa spregiudicata disinvoltura, molto pragmatica dal punto di
vista politico, mostrata con le popolazioni arabe durante la Prima
Guerra Mondiale. Come a queste ultime aveva promesso l'indipendenza
qualora si fossero schierate contro l'Impero Ottomano, alleatosi con
i tedeschi e gli austriaci, così – disattendendo il Patto di
Londra - la GB fece con gli slavi, promettendo loro l'indipendenza,
anche di parte delle terre che sulla base del sopra citato patto
sarebbero spettate all'Italia, in cambio della loro alleanza contro
l'Austria e la Germania. Da notare che, mentre nel caso degli arabi
le promesse fatte dagli inglesi attraverso il famoso agente segreto
Lawrence d'Arabia non vennero mantenute (tanto che buona parte di
quei territori furono sottoposti a mandati e protettorati
anglo-francesi), nel caso degli slavi sin da subito l'Inghilterra (v.
Conferenza di Corfù) mantenne un profilo di maggior rigore
nell'ottemperare agli obblighi assunti con gli slavi a spese degli
italiani. Infine, una seconda ragione avrebbe dovuto spingere i
marxisti a schierarsi con gli italiani e le loro rivendicazioni: la
lingua italiana si rivelava più funzionale alla ricerca ed al
progresso tecnologico perché foriera di notevoli insegnamenti
scientifici che hanno contribuito sin dal Rinascimento ad elaborare
un lessico specifico. La lingua croata e slava in genere si mostrava
invece più povera, inadeguata a promuovere il progresso industriale
e più adatta al conservatorismo tipico delle aree rurali. Ma se
secondo il marxismo la rivoluzione del proletariato può verificarsi
soltanto nel contesto di un'economia industriale e capitalistica
avanzata (e non prima), allora è chiaro che si sarebbe dovuta
favorire l'etnia italiana per incentivare lo sviluppo industriale,
prerequisito imprescindibile per il diffondersi e l'instaurazione di
un regime rivoluzionario socialista, marxista e anticapitalista anche
nei Balcani.
2)
Da anni la contesa politica sui territori balcanici ha assunto un
connotato particolare: abbandonato definitivamente il terreno
militare e quello diplomatico, il confronto si gioca sul versante
schiettamente culturale. Da parte ex jugoslava si tende ad avvalorare
l'idea che le radici etniche dell'Istria e della Dalmazia siano
slave, mostrando come una serie di figure intellettuali (artisti e
filosofi) da sempre considerate rappresentative dell'italianità
istriano-dalmata fossero in realtà di origine slava.
Il
primo caso è quello di Niccolò Tommaseo. Patriota di
Sebenico (Dalmazia), da sempre simbolo non solo di italianità, ma
addirittura delle battaglie risorgimentali con cui lo Stato nazionale
italiano, nelle varie forme proposte (federale o unitaria, monarchica
o repubblicana, liberale, sociale o democratica), ha cercato di
affrancarsi dal dominio austriaco conseguendo unità e indipendenza.
Lo troviamo in particolare protagonista della Repubblica di Venezia
(moti del 1848), che avrebbe dovuto nelle sue intenzioni costituire
la componente iniziale di un più vasto organismo federale italiano.
Optava per la soluzione federale, nel costruire il nuovo soggetto
politico nazionale e istituzionale, perché la riteneva più
rispettosa delle molteplici parti specifiche ricondotte a unità.
Questa prospettiva politica era la logica conseguenza della sua
impostazione gnoseologica. Secondo lui lo spirito che caratterizza
l'essere umano è espressione di una correlazione e di una
“convenienza” delle parti col tutto, con l'intero. In particolar
modo, assecondando un principio di fondo dell'atmosfera culturale
romantica, la Bellezza amorosa è il vincolo delle parti col tutto;
la conoscenza del limite di ciascuna di queste parti è indizio della
continuità con le altre, e quindi col tutto. La passione e l'impegno
con cui si profuse nei moti risorgimentali è attestato anche dalla
sua nota idiosincrasia nei confronti del Leopardi. Distanza,
antipatia che nascono da ragioni sia filosofiche che politiche.
Tommaseo giudicava Leopardi nefasto sia alla morale, sia alla Patria.
Il Recanatese, ad avviso di Tommaseo, pensava che il dolore fosse
inutile e, constatata la pervasività che lo caratterizzava, rendesse
inutile pertanto l'intera vita. Tutto sarebbe vano, ragion per cui
andrebbero valorizzate in forma compensativa le illusioni, l'unico
vero bene capace di regalare all'uomo quel po' di felicità che gli è
possibile provare. Orbene, questo modo di vedere le cose secondo
Tommaseo corrisponderebbe ad una vera e propria corruzione dei
giovani, inducendovi una sconsolata diffidenza, un ozioso lamento;
atteggiamento che si sarebbe rivelato particolarmente dannoso proprio
in un frangente storico, quello delle guerre d'indipendenza, in cui i
giovani stessi avrebbero all'opposto avuto bisogno di idee forti e
cariche affettive intense. A che pro infatti fare il patriota e
sacrificarsi per la salvezza della Patria, se tutto fosse realmente
vano? Queste le critiche di Tommaseo a Leopardi, e all'incongruenza
che registrava tra la filosofia “nichilista” del Recanatese e le
sue canzoni/poesie patriottiche dedicate all'Italia. Per Tommaseo il
“dolore” assume invece connotati positivi: innanzitutto quello
cristiano della redenzione. E qui s'inserisce l'abissale differenza
tra i due scrittori rispetto al modo di inquadrare funzione e
importanza della religiosità nella propria vita. Infatti
quest'accezione era rubricata come ulteriormente illusoria dal
Leopardi, perché classificabile come semplice esito della metafisica
platonica che ha debilitato l'originaria forza e vitalità del mondo.
Inoltre Tommaseo attribuiva al “dolore” il delicato ruolo di
nobilitatore e valorizzatore dell'esistenza, in quanto vario,
innovatore, ispiratore di sentimenti, pensieri e azioni radicali
molto di più della gioia. La colpa maggiormente imputabile a
Leopardi è quindi quella di aver scisso politica (che riguarda le
istituzioni, la società e la nazione) e morale (che riguarda
l'individuo). Ma la Nazione, secondo il Tommaseo, è un insieme di
individui la cui carica morale può cambiare il corso degli imperi.
Il sarcasmo di Tommaseo verso Leopardi, invero abbondantemente
ricambiato, può essere attestato dalla compilazione del lemma
“procombere” nel Dizionario della lingua italiana da lui curato;
così ne definiva il significato: “l'adopera un verseggiatore
moderno (NDR Leopardi) che per la Patria diceva di voler incontrare
la morte. Non avendo egli dato saggio di sapere neanche sostenerne i
dolori, la bravata appare non essere che retorica pedanteria”. Ora,
proprio sull'italianità del Tommaseo sono stati aperti degli
interrogativi, anche in territorio italiano. A questa diatriba ha
provato a mettere fine, dandone nel contempo sintetica testimonianza,
Ruggero Tommaseo, figlio di Niccolò, nel suo libro del 1933 dedicato
al padre L'ora del Tommaseo.
Egli riporta tutti gli argomenti proposti da coloro che prospettano
una inascrivibilità di Tommaseo alla nazionalità italiana: a)
l'origine slava del cognome (che sarebbe Tomasevic, o Tomasew), b) il
fatto che avesse scritto un'operetta lirica in lingua slava
(Scintille), nel
presentare la quale dichiara di avere sangue slavo nelle vene, c) il
fatto che lui stesso avesse dichiarato nelle sue memorie che avrebbe
potuto, ma semplicemente non volle, far sollevare la Dalmazia contro
l'Austria. Ad ognuno di questi argomenti il figlio oppone dei
controargomenti esplicativi: a) il cognome Tommaseo viene ribadito
come italiano, attestato già a Vicenza secoli prima in un avo della
famiglia che aveva la carica di Avvocato Maggiore, b) le sue
dichiarazioni di avere anche sangue slavo nelle vene, oltre ad
attestare la sua concezione di italianità intesa come non
declinabile in termini oppositivi o discriminatori nei confronti
dell'etnia slava, nasceva dall'esigenza di aggirare la rigida
vigilanza della censura austriaca, c) la mancata sommossa dalmata
contro l'Austria è riconducibile non certo a fedeltà verso l'impero
asburgico (come del resto anche l'esperienza veneziana dimostra), ma
per mere ragioni di opportunità strategica e operativa: sarebbe
infatti stata prematura e quindi fallimentare. Ai motivi per i quali
gli indizi di estraneità alla nazionalità italiana sarebbero
l'esito di una forzatura interpretativa spesso in malafede, si
aggiungono ulteriori elementi di avallo dell'italianità di Tommaseo:
a) nelle lettere private non censurate rivendica il suo spirito
nazionale italiano, b) fu eletto Deputato (anche se per ragioni di
salute si dimise dovendo rinunciare all'investitura popolare con una
commovente lettera), c) è sepolto a Firenze insieme ad altri membri
del Pantheon della storia italiana, d) redasse un dizionario
di lingua italiana e fu esperto di linguistica italiana, e) come
giornalista spesso ebbe problemi con editori o intellettuali che in
qualche modo avversavano la cultura italiana, f) si batté per la
restituzione della Corsica all'Italia.
Il secondo caso è quello di
Francesco Patrizi, filosofo rinascimentale di Cherso del XV
sec. Da qualche anno la società filosofica croata presenta il
filosofo italiano in convegni accademici e occasioni pubbliche con il
nome di Frane Petric. La Croazia gli ha dedicato una statua a Cherso
con quell'intestazione. Si tratta dell'ennesimo capitolo di questa
autentica battaglia culturale di revisione storica e nazionale,
condotta in particolar modo dai croati, che coinvolge anche
personaggi come Marco Polo, alias – nella versione croata ̵
Markus Polo da Curzola. Anche in questo caso i dati a supporto
dell'italianità di Patrizi sono molteplici: opera a Ferrara, Pavia
e Roma; scrive esclusivamente in volgare italiano o, al più, in
latino; soprattutto incarna l'ideale filosofico
umanistico-rinascimentale, ossia l'ultima marca culturale di spessore
che l'Italia abbia offerto alla storia dell'umanità. Da buon
umanista, acquistò un consistente patrimonio librario classico; la
sua formazione fu eclettica, essendosi occupato di geometria,
aritmetica, storia, idrologia, arte militare, retorica, filosofia. Il
suo contributo più significativo, a proposito di quest'ultima,
concerne la filosofia greca classica e consiste nel tentativo di
recuperare il fondamento metafisico e divino del linguaggio, delle
parole, facendone il riflesso dell'ordito reale secondo un modello
specificamente matematico. Proprio per questo traccia una linea di
continuità tra l'orfismo, il pitagorismo, alcune istanze della
filosofia presocratica e Platone. Dopo Platone, per lui,
s'interromperebbe la continuità filosofica: Aristotele, empio, a
causa di un esasperato empirismo che va a detrimento della naturale
propensione speculativa e metafisica della filosofia, non coglie
infatti l'adeguato rapporto tra quest'ultima e la religione.
DF
1Cavità
naturale carsica, caverna sotterranea articolata spesso in un fitto
reticolato di profondi cunicoli, prodotta dall'azione di erosione
degli agenti climatici e atmosferici (acqua e vento). Utilizzata
come discarica dai contadini slavi che vi riversavano vecchi
utensili, suppellettili e carcasse d'animali attraverso un'apertura
di pochi metri (una decina) detta “inghiottitoio”. La foiba di
Basovizza, monumento nazionale, era invece una miniera scavata
artificialmente.
2Va
ricordato in proposito che precedentemente, tra '800 e '900, si era
sviluppato un panslavismo serbo-russo che vagheggiava, per voce di
Kozler, l'istituzione di una Grande Slovenia che avrebbe dovuto
comprendere tutta la costa adriatica sul versante balcanico,
Monfalcone, Grado e l'intera parte orientale del Friuli.
L'irredentismo patriottico italiano di quel periodo nacque anche per
reagire a tale progetto politico sloveno e alla sua manifesta
ostilità nei confronti della nazione italiana.
3Questo
spiega anche il contenuto della sentenza di condanna emanata dal
Tribunale di Trieste contro i carnefici dei ferrovieri italiani. Tra
le linee difensive esperite dagli avvocati degli imputati c'era
anche il richiamo ad un Ordine Generale del Comando Alleato che
sanciva la non punibilità (una sorta di amnistia) per coloro che si
fossero macchiati di crimini commessi ai fini della liberazione del
proprio territorio dalle forze di occupazione nazifasciste. Il
giudice dichiarò infatti che i tre ferrovieri non potevano essere
annoverati tra le forze militari (e non) d'invasione fascista; e
questo per le ragioni sopra esposte (associate al fatto che i tre
non hanno svolto alcun ruolo attivo, tanto meno da protagonisti,
nella gestione politica del potere fascista nella Venezia Giulia e
nelle coste adriatiche della penisola balcanica). Va doverosamente
ricordato che l'estensore della sentenza, il giudice Thermes, lungi
dal poter essere accusato di commistione con il Fascismo, fu un
tenace persecutore di collaborazionisti con i regimi nazifascisti.
4Questo
apre uno scenario di riflessione sul coinvolgimento di parte della
Resistenza dell'area giuliana nelle tormentate vicende che
coinvolsero i nostri connazionali tra il '43 e il '45. Le posizioni
sono sostanzialmente due: la prima è quella di chi sostiene che
l'estraneità della resistenza partigiana al quadro di
responsabilità storiche sia ulteriormente confermata dalla
fuoriuscita dei comunisti giuliani che avevano sposato la causa
titina dal Comitato di Liberazione Nazionale – sezione giuliana.
In tal senso la tesi di fondo è la seguente: i comunisti giuliani
che si sono resi più o meno direttamente corresponsabili degli
infoibamenti a danni di italiani (peraltro anche di altri comunisti
e partigiani), pur avendo in precedenza attivamente preso parte al
movimento storico-politico della Resistenza in quell'area, con la
scelta dell'opzione titina avrebbero decretato la propria espulsione
da tale fenomeno ponendo fine alla propria appartenenza alla realtà
della militanza partigiana. Questa infatti si connota per il suo
carattere patriottico e nazionale, per cui qualsiasi atto ostile
alla popolazione italiana non solo non può esserle ascritto, ma
configura semmai un tradimento della stessa. Questo spiega anche
come mai e perché (in verità soprattutto negli ultimi anni) le
associazioni e gli istituti della Resistenza giuliana non si siano
sottratti a dibattiti e approfondimenti storiografici sul tema delle
foibe e dell'esodo istriano, dalmata, giuliano, promuovendone anzi
parecchi. La seconda posizione è quella di chi, invece, sottolinea
l'organica e attiva presenza di tali soggetti nell'area della
Resistenza; ai fini del disconoscimento di tale appartenenza non
sarebbe quindi sufficiente l'adesione al progetto titino, sia perché
l'auspicabilità del modello titino, in seguito, non mancò di
suggestionare esponenti della Resistenza e delle associazioni
partigiane giuliane che, evidentemente, non percepirono come
irrimediabilmente avverso lo schieramento di cui furono vittime nel
biennio tragico della prima metà degli anni '40, sia perché questi
stessi contrasti tra partigiani, partigiani comunisti e comunisti
giuliani filotitini lungi dall'identificare, distinguendoli, blocchi
interni o esterni all'area della Resistenza, si configurano semmai
come lotte intestine e vere e proprie guerre civili entro il fronte
resistenziale, come attestato peraltro da episodi tragici quale
quello dell'eccidio di Porzus. che citeremo dopo.
5Dalla
delusione e dal rincrescimento per la conclusione di questo trattato
prendono spunto le vibranti pagine del romanzo epistolare “Le ultime lettere di Jacopo
Ortis”, in cui Ugo Foscolo, attraverso l'alter
ego del protagonista, denuncia la propria rabbia per il
tradimento consumato da Napoleone a danno dei patrioti veneziani.
6Spesso,
e a torto, si considera l'Irredentismo un movimento politico di
esclusiva matrice nazionalistica. Se è vero che nell'Irredentismo
tardo ottocentesco e soprattutto primo novecentesco il peso
specifico esercitato dal partito nazionalista fu considerevole e le
affinità tra questi due orientamenti politici dunque abbastanza
marcate, è anche vero che le istanze di fondo dell'Irredentismo
erano condivise anche da anarchici, socialisti (lo stesso
sindacalista rivoluzionario, cui s'ispirò il socialista Mussolini,
George Sorel scrisse un articolo sull'italianità della Dalmazia, v.
oltre), liberali e cattolici. Va da sé, infine, che la confluenza
dell'Irredentismo nel più vasto movimento risorgimentale depone per
l'inquadramento delle sue origini più nel contesto del movimento
politico culturale del patriottismo ottocentesco che non in
quello del nazionalismo di fine Ottocento/inizio Novecento.
7Durante
i moti risorgimentali del 1848 fonda con Daniele Manin la Repubblica
di Venezia, ribellandosi all'Austria.
8Patto
stipulato tra Italia e Triplice Intesa (Gran Bretagna, Francia e
Russia) con cui la prima si impegnava ad entrare nel I conflitto
mondiale schierandosi contro gli ex alleati (Austria e Germania).
All'Italia vennero promessi Istria, Dalmazia (esclusa Fiume e
inclusa Zara) e un protettorato su Valona (Albania).
9Dresda
è una città tedesca, tristemente nota per essere stata
letteralmente rasa al suolo dai bombardamenti anglo-americani alla
fine della II Guerra Mondiale.
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