Ringraziamo il professore Savagnone per essersi gentilmente reso disponibile ad offrirci il contributo sulla nozione di "Scelta" che ha presentato ad uno dei seminari ASTER di cui abbiamo dato notizia nei mesi scorsi. Una breve e densa riflessione si articola attraverso una serie di snodi tematici e disciplinari, coinvolgendo la filosofia (Kierkegaard, Nietzsche, Heidegger), l'arte (Picasso), le scienze umane (l'antropologia, con Cluade Lévi-Strauss); un invito a soffermarsi sul significato e le ragioni di uno degli atti esistenziali fondamentali dell'Uomo, così di fatto lo cataloga la filosofia morale di Aristotele, che si offre ad una lettura agevole e stimolante, raccomandata in particolare, ma certo non esclusivo, modo ai ragazzi di quinta che con esso stanno in questi mesi misurandosi nell'orientare la propria vita verso nuovi indirizzi e traguardi.
NOTA BIOBIBLIOGRAFICA
Il professore Giuseppe Savagnone, già insegnante di Storia e Filosofia nei licei, è docente della Scuola superiore di Specializzazione in bioetica e sessuologia dell'Istituto teologico S.Tommaso di Messina, nonché del Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università LUMSA (sede di Palermo). Direttore dell'Ufficio diocesano per la Pastorale della cultura di Palermo ed editorialista di "Avvenire", la sua produzione bibliografica è vastissima; tra le sue opere segnaliamo per la particolare attinenza con lo spirito del blog dipartimentale "Theoria. Alla ricerca della filosofia", Brescia, La Scuola, 1991.
NOTA BIOBIBLIOGRAFICA
Il professore Giuseppe Savagnone, già insegnante di Storia e Filosofia nei licei, è docente della Scuola superiore di Specializzazione in bioetica e sessuologia dell'Istituto teologico S.Tommaso di Messina, nonché del Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università LUMSA (sede di Palermo). Direttore dell'Ufficio diocesano per la Pastorale della cultura di Palermo ed editorialista di "Avvenire", la sua produzione bibliografica è vastissima; tra le sue opere segnaliamo per la particolare attinenza con lo spirito del blog dipartimentale "Theoria. Alla ricerca della filosofia", Brescia, La Scuola, 1991.
Giuseppe Savagnone
Che significa scegliere?
La scelta finalmente possibile
Sembra che oggi scegliere sia diventato
molto più possibile che in passato. Non sono remoti i tempi in cui
le persone si sposavano in base alla volontà dei genitori, quasi
senza conoscersi e tanto meno scegliendosi; in cui i matrimoni si
reggevano “agli occhi del mondo”, anche se uno dei due o entrambi
i coniugi erano in realtà innamorati di altri; in cui i figli
abbracciavano la professione paterna, quali che fossero le loro
reali aspirazioni. La storia della monaca di Monza, narrata dal
Manzoni, è emblematica. Tutto questo, ormai, sta alle nostre spalle.
Gli individui possono orientare la propria vita, senza che la loro
volontà sia sostituita da imposizioni altrui, sia nell’ambito
affettivo che in quello professionale. È chiaro che dei
condizionamenti continuano ad esserci, ma i margini di libertà, nel
giro di pochi decenni, si sono enormemente ampliati.
Se poi dalle grandi scelte si passa a
quelle quotidiane, il diminuito controllo sociale permette a tutti –
specialmente ai giovani e alle donne - di avere molta più libertà
di movimento e di comportamento. Inoltre, l’avvento della società
dei consumi ci ha consentito di trovarci di fronte a una gamma
praticamente illimitata di oggetti da acquistare, a fronte di un
passato in cui questo era impossibile.
Non intendo sottovalutare la positività
di queste conquiste. A cominciare dall’ultima, che può sembrare
banale e non lo è. Ricordo ancora che, in un viaggio a Praga, la
signora che faceva da guida raccontò che, da ragazza, era riuscita
ad avere il permesso dal governo comunista per recarsi a Milano,
dove, per via epistolare, aveva stretto delle amicizie. Subito dopo
il suo arrivo, i suoi amici le avevano chiesto cosa volesse visitare:
il Duomo, un museo… lei aveva risposto che voleva essere portata a
un supermercato. Per quanto stupiti, i suoi ospiti l’avevano
accontentata. E là, in mezzo a tante cose che nel suo paese erano
introvabili, lei si era sentita inebriata. A un certo punto gli
amici, un po’ impazienti, le avevano chiesto di decidersi su cosa
acquistare. «Puoi scegliere quello che vuoi», le avevano detto.
«Quando ho sentito queste parole: “Tu puoi scegliere”» -
raccontava, «sono scoppiata a piangere».
Scelta di fare e scelta di volere
Ma proprio il mutato rapporto con le
cose, determinato dal consumismo, solleva un dubbio inquietante sul
significato che ha la scelta, così come si realizza abitualmente
nella nostra società. Nessun dubbio che le persone possano, molto
più che in passato, fare ciò che vogliono. Ma sono
anche in grado di decidere cosa volere? Se per “scelta”
intendiamo la prima cosa, è chiaro che oggi possiamo scegliere molto
più di prima. Se invece intendiamo la seconda, la risposta è assai
meno sicura. Non è affatto detto che tanti, quando si comportano in
un certo modo perché vogliono farlo, siano stati davvero in grado di
scegliere cosa volere. All’allargarsi delle possibilità di fare
non sempre corrisponde una maturazione delle capacità di valutare se
fare una cosa oppure no, e perché farla. Può accadere così che a
scegliere, in realtà, siano i “persuasori occulti” che ci
condizionano psicologicamente e ci fanno volere questa o quella cosa.
Anzi, a ben vedere, l’aumento delle capacità di pressione delle
mode, attraverso i mezzi di comunicazione, ha reso ancora più facile
che a decidere ciò che vogliamo non siamo noi, ma quei “persuasori”.
Già Martin Heidegger, nel lontano
1927, faceva presente il problema. Egli definiva “inautentica” la
vita della maggior parte delle persone, perché dominata dal “Si”
nel senso impersonale. Egli osservava che, quando chiediamo a
qualcuno perché parli in un certo modo, la risposta spesso è:
«Perché oggi si parla così». E se gli chiediamo perché
agisca in un certo modo, risponderà: «Perché oggi ci si
comporta così». E così via. A questo punto, però, osserva il
filosofo, «ognuno è gli altri e nessuno è se stesso»1.
Col risultato che in fondo nessuno ha veramente scelto di volere fare
una cosa o l’altra.
Non è solo il problema delle mode.
Moltissime persone non si chiedono mai perché vogliono questo o
quello. Le scelte che fanno sono tali solo in senso esteriore,
riguardano il fare, non il volere. Ma, a questo punto, sono vere
scelte?
La grandezza e l’angoscia della scelta
La verità è che scegliere davvero è
impegnativo. Se ci limitiamo a seguire il gregge o anche
semplicemente gli impulsi del momento, senza porci neppure la domanda
sulla possibilità di comportarci diversamente, tutto è automatico e
non nascono problemi. Perché «nessuno è se stesso» e il vero
soggetto della scelta è la massa. Niente di nuovo accade, quando la
si fa, rispetto alla volontà anonima del “Si” già in atto.
Perciò, questo tipo di scelta è perfettamente prevedibile e
calcolabile, come un qualsiasi fenomeno della natura, e su ciò si
basano le indagini di marketing.
Ma se, invece, si sceglie decidendo
liberamente cosa volere, allora quella scelta ha una grandezza
incommensurabile e ha sempre, oscuramente, qualcosa di drammatico.
L’autore che più di ogni altro, forse, ha esplorato questa realtà
è Kierkegaard, il fondatore dell’esistenzialismo, a cui perciò ci
ispireremo per questa riflessione. Per lui la (vera) scelta è grande
e al tempo stesso terribile perché ci mette di fronte alla
possibilità: «In un momento qualcosa si presenta come possibile,
poi si presenta una nuova possibilità e alla fine queste
fantasmagorie si susseguono così rapidamente che tutto sembra
possibile; e questo è l’ultimo momento in cui l’individuo tutto
intero è diventato esso stesso un miraggio»2.
Perciò la scelta determina dentro di
noi, a volte, uno stato d’animo che Kierkegaard chiama «angoscia».
Che non è la paura, perché questa ha sempre un motivo preciso –
si ha paura di “qualcosa” - , mentre l’angoscia, nascendo dalla
pura possibilità, è angoscia di “nulla”.
Il fatto è che lo scegliere di volere
una cosa invece che un’altra ci fa essere, per una volta, creatori
di ciò che non esisterebbe senza di noi: come minimo, il nostro
stesso volere. Anche se non riuscissimo a fare davvero quello che
vogliamo, qualcosa di nuovo esiste nell’universo dal momento che
noi realizziamo in noi, consapevolmente e liberamente quell’atto di
volontà. Perché esso non è il meccanico ripetersi di ciò che
tutti vogliono, ma esprime noi stessi, la nostra presa di posizione,
unica e irripetibile, davanti a uno dei tanti aut-aut della vita.
Nessun essere umano, neppure Dio, potrebbe sostituirci in quel
momento.
Per questo, sempre Kierkegaard, in una
immaginaria lettera a un amico, parlando della libertà di scegliere
scrive: «Questo è il tesoro che intendo lasciare a quelli che amo
nel mondo. Se il mio figlioletto fosse adesso nell’età di poter
comprendere e fosse giunta la mia ultima ora, gli direi: non ti
lascio né sostanze né titoli, né onori; ma so dove giace un tesoro
che ti può far più ricco di ogni cosa al mondo, e questo tesoro ti
appartiene e di esso non devi ringraziare me (…): questo tesoro è
sepolto nel tuo interno, è un aut-aut che rende gli uomini più
grandi degli angeli» 3.
Davanti alla scelta siamo soli. Gli
altri potranno consigliarci, ma alla fine siamo noi a dover dire la
parola decisiva, di cui ci assumiamo la responsabilità, nel bene o
nel male. E questa scelta è unica e irripetibile, dicevamo, perché
potremo anche cambiare idea e farne subito dopo una opposta, ma
questa non annullerà mai la precedente, sarà semplicemente diversa.
Né la si può rimandare o eludere, perché anche questo significa
scegliere, anche se è scegliere di non scegliere.
E di fatto sono molti a vivere facendo
continue scelte sul piano del “fare”, ma senza mai chiedersi cosa
vogliono veramente dalla vita e senza impegnarsi a scegliere davvero.
Si capisce così la crisi delle “vocazioni”, non solo al
sacerdozio o alla vita religiosa, ma anche al matrimonio o
all’impegno politico. A fronte di persone che un tempo si davano
interamente a cause, giuste o sbagliate che fossero, in cui
impegnavano la loro esistenza, oggi prevale la logica del
provvisorio, dell’effimero. Si sceglie, appunto, di non scegliere.
La mancanza del soggetto che possa scegliere
Alla base di questa difficoltà di
scegliere, però, non sta solo la drammaticità della scelta. Vi è,
alla radice, una crisi più profonda del soggetto, di cui la cultura
contemporanea è al tempo stesso artefice e testimone. Dopo
l’enfatica esaltazione dell’Io da parte della cultura moderna,
assistiamo oggi alla sua liquidazione da parte di quella
post-moderna. E’ stato Nietzsche – che di questa cultura è
considerato il profeta, se non il “padre” – a scrivere che l'io
è solo «una favola, una finzione, un gioco di parole»4.
Per lui il soggetto umano è solo una maschera che nasconde un flusso
caotico di pulsioni senza coerenza. Su questa linea oggi c’è chi,
rifacendosi anche agli studi delle neuroscienze, sostiene che l’io
altro non è che una società per azioni, per di più a maggioranza
variabile.
Una visione analoga emerge da una
pagina del famoso antropologo Claude Lévi-Strauss: «Vedo me stesso
come il luogo in cui qualcosa accade, ma non v’è nessun “Io”
né alcun “me”. Ognuno di noi è una specie di crocicchio ove le
cose accadono. Il crocicchio è assolutamente passivo: qualcosa vi
accade. Altre cose, egualmente importanti, accadono altrove. Non c’è
scelta: è una questione di puro caso»5.
Il soggetto diventa il frutto casuale delle sue esperienze,
molteplici e frammentarie, incapace di dominarle, anche perché in
fondo convinto di doversi identificare con il loro flusso senza
direzione.
Per un riscontro sul piano artistico,
basta confrontare il ritratto di un pittore del Rinascimento con uno
dipinto da Picasso per vedere la differenza: nel primo troveremo una
fisionomia compatta, sotto il segno di un’unica, coerente
prospettiva spaziale; nel secondo a stento riconosceremo i tratti
umani e solo guardando più attentamente ci accorgeremo che i singoli
elementi – gli occhi il naso, la bocca - ci sono tutti, ma
dispersi e disposti secondo prospettive diverse e contraddittorie.
Le maschere e il volto
Alla radice della incapacità di
decidere vi è dunque la difficoltà di essere se stessi. La società
del benessere oggi assicura ai giovani una serie di opportunità –
settimane bianche, studio delle lingue, attività sportive – ma
non li aiuta ad avere – anzi ad essere - un io. Anzi, proprio
questa varietà di esperienze, dicevamo finisce per dissolvere il
soggetto in esse, dandogli ogni volta una nuova forma, adeguata alla
situazione.
Prima ancora di Pirandello, a dire che
l’uomo assume maschere sempre diverse che lo disgregano è stato
proprio Sören Kierkegaard. Scrivendo a un immaginario interlocutore,
a cui rimprovera questa fuga da se stesso, l’autore scrive: «La
vita è una mascherata, tu dici, e questo è per te fonte
inesauribile di divertimento, e sei così abile che ancora non è
riuscito a nessuno di smascherarti: poiché ogni manifestazione tua è
sempre un inganno; solo in questo modo tu puoi respirare e far sì
che la gente non si serri intorno a te e ostacoli la tua
respirazione. In questo sta la tua attività, nel mantenere il tuo
nascondiglio, e questo ti riesce, perché la tua maschera è la più
misteriosa di tutte; infatti non sei nulla, e sei sempre soltanto in
relazione agli altri, e ciò che tu sei lo sei soltanto per questa
relazione».
Ma, continua l’autore, questo gioco è
mortale per chi vi si abbandona: «Non sai che giungerà l'ora della
mezzanotte in cui ognuno dovrà smascherarsi? Credi che si possa
sempre scherzare con la vita? Credi che si possa di nascosto
sgaiattolar via un po' prima della mezzanotte per sfuggirla? Non
inorridisci a questo pensiero? Nella vita ho visto persone che
tradirono tanto a lungo gli altri che alla fine il loro vero essere
non poteva più manifestarsi; ho visto persone, che per tanto tempo
giocarono a nascondersi, che alla fine in essi la pazzia
ributtantemente mostrava agli altri quei segreti pensieri che essi
fino ad allora avevano tenuti orgogliosamente celati. O puoi pensare
qualche cosa di più terribile di ciò, che alla fine il tuo essere
si disfi in una molteplicità, che tu veramente divenga più esseri,
divenga una legione come gli infelici esseri demoniaci, e che così
tu perda ciò che è più intimo, più sacro nell'uomo, il potere che
lega insieme la personalità?»6.
La vita sprecata davanti a Dio
Vi è una dimensione religiosa in
questa fuga da se stessi. Perché essa implica la fuga anche da Dio.
«Si parla tanto di vite sprecate» - scrive ancora Kierkegaard -:
«ma sprecata è soltanto la vita di quell'uomo che così la lasciava
passare, ingannato dalle gioie della vita e dalle preoccupazioni, in
modo che non diventò mai, con una decisione eterna, consapevole di
se stesso come spirito, come “io”; oppure - ed è lo stesso -
perché mai si rese conto, poiché non ebbe mai, nel senso più
profondo, l'impressione che esiste un Dio e che “egli”, proprio
lui, il suo io, sta davanti a questo Dio»7.
La difficoltà di entrare in rapporto
con Dio è strettamente legata a quella di relazionarsi a se stessi.
Chi dice di non saper pregare forse è una persona che non riesce, in
primo luogo, a far pace con la propria vita e ad essere un io.
Ma «di una tal cosa non si fa molto
caso nel mondo; perché dell'io il mondo si cura meno di qualsiasi
cosa; e il pericolo più grande per un uomo è mostrare di averlo. Il
pericolo più grande, quello di perdere se stesso, può nel mondo
passare così inosservato; di ogni altra perdita, della perdita di un
braccio, di una gamba, di cinque talleri, della moglie, ecc., uno se
ne accorge certamente» 8
- di questa no. Anzi forse un uomo oggi «trova troppo rischioso
essere se stesso» e per questo preferisce «essere un numero fra gli
altri nella folla»9.
Scegliere significa, allora, molto di
più che quel poter fare ciò che si vuole da cui siamo partiti.
Proprio l’avere ridotto la scelta a un gioco di preferenze ormai
costituite, senza spingersi a riflettere sulla loro origine, è il
segno della perdita dell’io. E recuperare il valore autentico dello
scegliere comporta non tanto una semplice rivendicazione di libertà
dai vincoli che ci impediscono di soddisfare i nostri desideri,
quanto il riscoprire la radice profonda che può dare ad essi e al
loro perseguimento il loro vero significato. Perché solo allora, al
di là di ciò che fa, una persona può dire di vivere una vita degna
di essere vissuta.
1
M. Heidegger, Essere e tempo, tr. it. P. Chiodi, UTET, Torino
1969, pp.216-217.
2
S. Kierkegaard, La malattia mortale, a c. di C. Fabro,
Sansoni, Firenze 1965, p.244.
3
S. Kierkegaard, Aut-Aut, intr. R. Cantoni, tr. it. K. M.
Guldbrandsen e R. Cantoni, Mondadori, Milano 1988, p.52.
4
F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, a c. di G. Colli e M.
Montinari, tr. it. F. Masini, Mondadori, Milano 1975, p.72.
5
C. Lévi-Strauss, Mito e significato, tr. it. C.
Segre, Il Saggiatore, Milano 1980, pp.16-17.
6
S. Kierkegaard, Aut-Aut, cit., pp.35-36. Kierkegaard si
riferisce, qui, all'episodio del vangelo di Luca in cui, a Gesù che
gli chiede il suo nome, l'indemoniato risponde «Legione» - «perché
molti demoni erano entrati in lui» (Lc 8,30).
7
S. Kierkegaard, La malattia mortale, cit., p.233.
8
Ivi, pp.239-240.
9
Ivi, p.241.
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