Liceo scientifico G.D'Alessandro

Liceo scientifico G.D'Alessandro

venerdì 19 maggio 2017

I professori Valentina Mangiaforte ed Ernesto Romeo negli aa.ss. scorsi hanno dedicato diverse lezioni, nelle loro rispettive classi, all'analisi ed al commento del saggio di Todorov dedicato a tutte le implicazioni filosofiche, antropologiche e storiche riconducibili alla scoperta, anzi alla "conquista" europea dell'America. Le ragioni didattiche di tale scelta, le connesse, molteplici valenze formative ad essa associate, il percorso didattico seguito sono ben descritti dal collega Romeo che ringrazio per il tempo dedicato ad illustrarle così esaustivamente. Gli esiti incoraggianti di questa esperienza sono adeguatamente rappresentati dalle riflessioni di Giulia che ha particolarmente apprezzato gli spunti tematici offerti da Todorov rielaborandoli con riflessioni serie e meditate, espresse con un linguaggio ed una logica che testimoniano la maturazione di un'accattivante capacità di argomentare filosoficamente, sempre più rara nei ragazzi della sua età.

 

PREMESSA DIDATTICA

Prof. Ernesto Romeo


Lʼassegnare ogni mese agli studenti la lettura di un nuovo libro è pratica che sembra potersi giustificare anche a partire dagli obiettivi che generalmente vengono conseguiti: al di là di evidenti, per quanto mai del tutto soddisfacenti, ricadute che essa ha sul piano della qualità dellʼespressione scritta ed orale dei discenti; al di là della sua veicolazione di contenuti che ampliano in molteplici direzioni il bagaglio culturale dello studente; tale pratica costituisce soprattutto un argine allʼ«incultura del frantume».
In effetti la moderna abitudine alla navigazione online, che con lʼausilio dei link si basa, almeno per i più, sul salto continuo da una pagina allʼaltra e da un sito allʼaltro, lascia al fruitore la sensazione di aver appreso una quantità considerevole di informazioni, fornendogli in realtà solo idee vaghe e/o precocemente evanescenti; sempre che non intervengano addirittura grossolani fraintendimenti.
La lettura integrale di un libro, con le sue pagine in serialità costrittiva, le sue frequenti ridondanze, costringe invece ad uno scavo metacognitivo e facilita i processi di astrazione: specialmente qualora alla lettura del libro, operata in sincronia più o meno stretta tra i vari membri di una classe (rimanendo la fruizione diretta del testo rigorosamente individuale), segua una socializzazione collettiva, mediata dallʼinsegnante e tendente a fare della classe stessa una comunità ermeneutica.
Ora, agli inizi dellʼa.s. 2016-2017 il dipartimento di lettere decise di fare del fenomeno dei migranti il filo rosso di buona parte del programma di Lingua e letteratura italiana, in particolar modo per le classi terze. Furono declinati i relativi obiettivi didattico-formativi e si creò una cartella condivisa su Dropbox, nella quale ogni insegnante ebbe modo di inserire materiali cui tutti i colleghi potessero attingere. Una di noi, Valentina Mangiaforte, propose tra lʼaltro la lettura del saggio di Todorov intitolato La conquista dellʼAmerica. Il problema dellʼ«altro»; io lessi questo testo, che non conoscevo, e lo inserii immediatamente nella mia programmazione.
Lʼopera, rileggendo lʼincontro (o, se si preferisce, lo scontro) tra la civiltà europea e quella amerindia soprattutto in termini di «scoperta» e «impatto» con lʼaltro, produce unʼinteressante traslazione nel tempo e nello spazio di unʼanaloga vicenda contemporanea (mutatis mutandis, è ovvio) di straordinaria importanza, ossia appunto quella delle attuali migrazioni internazionali; dunque si prestava in maniera molto stimolante ed efficace a far sì che gli studenti potessero accostarsi con atteggiamento «scientifico», diciamo socio-antropologico, ad entrambe le questioni.
Principale obiettivo formativo era unʼulteriore presa di coscienza di valori universali come la socialità e la solidarietà, anche ai fini di una sana e proficua convivenza democratica. Come corollario ne scaturì un secondo obiettivo, lo sviluppo del senso di responsabilità e dellʼimpegno nel far parte di una comunità.
Tra gli obiettivi cognitivo-didattici, invece, vi furono lʼarricchimento del patrimonio linguistico e lo sviluppo di alcune capacità: quella di rielaborare personalmente i contenuti, quella di interpretarli e valutarli criticamente, quella di affinare le proprie doti di analisi e di sintesi.
Ad una prima decodifica individuale del testo seguì, come sempre, una socializzazione collettiva. La verifica consisté nellʼeffettuazione di un questionario preparato dallʼinsegnante e seguito, dopo la correzione degli elaborati, da un ulteriore confronto collettivo.

Gli obiettivi possono dirsi complessivamente raggiunti, come ben attesta – paradigmaticamente – la relazione di Giulia Di Cara.



Tzvetan Todorov, La conquista dellʼAmerica: il problema dellʼ«altro»

Giulia Di Cara - IV H


La storia esemplare narrata da Todorov è una storia vera.
Il problema dellʼ«altro» non riguarda solo il passato, ma è più contemporaneo che mai: non può essere trascurato poiché, quasi contraddittoriamente, il problema dellʼ«altro» è il problema dellʼ«io».
La riflessione che ne deriva riguarda il rapporto tra i due, ma soprattutto su chi è “più” o “meno altro” dalla prospettiva del singolo.
Interrogarsi sulla relazione che unisce individui differenti per sesso, età, lavoro o classe sociale, ma che possiedono comunque un legame sufficientemente forte da tradursi in un “noi”, assume caratteristiche differenti da quella che può nascere dallʼincontro (o dallo scontro) con chi è estraneo, diverso per lingua, cultura e costumi e con nessunʼaltra comunanza se non quella di appartenere alla stessa specie.
È per questa ragione che Todorov non avrebbe potuto trovare argomento più adatto della scoperta dellʼAmerica per il ruolo di storia esemplare.
Colombo è mosso da intenti cristiani e sinceri, è un uomo di fede che modella il mondo e lʼ«altro» non per cercare verità, ma per affermare le proprie; un uomo che rende universali i suoi valori non per egoismo, bensì per cecità.
Lʼincapacità di mutare prospettive, i fraintendimenti, il modellare la realtà: cosa abbia davvero impedito a Colombo di scoprire non lʼAmerica, ma gli americani, dovrebbe servire come monito per non ricadere negli stessi errori che hanno portato al più grande genocidio dellʼumanità.
Colombo non è lʼunico protagonista di questa storia: Todorov attraversa gli eventi che vedono partecipi le figure di Cortés, Las Casas, Durán, Sepúlveda, Sahagún, Guerrero, Aguilar.
Le azioni degli spagnoli, partecipando a quella che Todorov chiama “società del massacro”, rivelano una crudeltà che abbandona i valori etici e morali, forse a causa della lontananza dalla propria terra: vedutisi al di fuori della portata del potere regio, gli spagnoli si danno ad una violenza ingiustificata, nata per il piacere della crudeltà stessa, che rivela quanto questa natura non sia bestiale, ma più umana che mai.
Paradossalmente, anche a difesa dellʼuguaglianza nasce la distinzione: gli indiani sono uguali agli spagnoli, non viceversa; gli americani sono “ottimi cristiani”, non ottimi uomini, e lo sono solo in relazione ai valori europei.
Non in grado di stabilire un piano dove le differenze non si concludono in un mero rapporto superiore-inferiore e giusto-sbagliato, gli spagnoli (almeno quelli che hanno tentato di dare una risposta diversa) hanno invertito lʼuguaglianza con lʼintegrazione, con il tentativo di assimilare gli indiani eliminando le diversità.
Anche il desiderio di conoscenza di Duran o lʼamore di Las Casas non sono bastati per arrivare alla comprensione, se mai fosse stata possibile, né ad impedire quella che è stata alla base della violenza della società moderna del massacrificio.
Todorov mette in guarda dal cadere nellʼerrore di reputarsi migliori, perché nemmeno oggi siamo in grado di giudicare il grado gerarchico dei valori passati e presenti, ed evidenzia come lʼincomunicabilità, lʼottenebramento delle visioni e la nostra natura stessa ci conducano alla distruzione dellʼaltro e, quindi, di noi stessi.




martedì 2 maggio 2017

LA SCELTA...DI SCEGLIERE



Ringraziamo il professore Savagnone per essersi gentilmente reso disponibile ad offrirci il contributo sulla nozione di "Scelta" che ha presentato ad uno dei seminari ASTER di cui abbiamo dato notizia nei mesi scorsi. Una breve e densa riflessione si articola attraverso una serie di snodi tematici e disciplinari, coinvolgendo la filosofia (Kierkegaard, Nietzsche, Heidegger), l'arte (Picasso), le scienze umane (l'antropologia, con Cluade Lévi-Strauss); un invito a soffermarsi sul significato e le ragioni di uno degli atti esistenziali fondamentali dell'Uomo, così di fatto lo cataloga la filosofia morale di Aristotele, che si offre ad una lettura agevole e stimolante, raccomandata in particolare, ma certo non esclusivo, modo ai ragazzi di quinta che con esso stanno in questi mesi misurandosi nell'orientare la propria vita verso nuovi indirizzi e traguardi.

NOTA BIOBIBLIOGRAFICA
Il professore Giuseppe Savagnone, già insegnante di Storia e Filosofia nei licei,  è docente della Scuola superiore di Specializzazione in bioetica e sessuologia dell'Istituto teologico S.Tommaso di Messina, nonché del Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università LUMSA (sede di Palermo). Direttore dell'Ufficio diocesano per la Pastorale della cultura di Palermo ed editorialista di "Avvenire", la sua produzione bibliografica è vastissima; tra le sue opere segnaliamo per la particolare attinenza con lo spirito del blog dipartimentale "Theoria. Alla ricerca della filosofia", Brescia, La Scuola, 1991. 

Giuseppe Savagnone

Che significa scegliere?




La scelta finalmente possibile

Sembra che oggi scegliere sia diventato molto più possibile che in passato. Non sono remoti i tempi in cui le persone si sposavano in base alla volontà dei genitori, quasi senza conoscersi e tanto meno scegliendosi; in cui i matrimoni si reggevano “agli occhi del mondo”, anche se uno dei due o entrambi i coniugi erano in realtà innamorati di altri; in cui i figli abbracciavano la professione paterna, quali che fossero le loro reali aspirazioni. La storia della monaca di Monza, narrata dal Manzoni, è emblematica. Tutto questo, ormai, sta alle nostre spalle. Gli individui possono orientare la propria vita, senza che la loro volontà sia sostituita da imposizioni altrui, sia nell’ambito affettivo che in quello professionale. È chiaro che dei condizionamenti continuano ad esserci, ma i margini di libertà, nel giro di pochi decenni, si sono enormemente ampliati.
Se poi dalle grandi scelte si passa a quelle quotidiane, il diminuito controllo sociale permette a tutti – specialmente ai giovani e alle donne - di avere molta più libertà di movimento e di comportamento. Inoltre, l’avvento della società dei consumi ci ha consentito di trovarci di fronte a una gamma praticamente illimitata di oggetti da acquistare, a fronte di un passato in cui questo era impossibile.
Non intendo sottovalutare la positività di queste conquiste. A cominciare dall’ultima, che può sembrare banale e non lo è. Ricordo ancora che, in un viaggio a Praga, la signora che faceva da guida raccontò che, da ragazza, era riuscita ad avere il permesso dal governo comunista per recarsi a Milano, dove, per via epistolare, aveva stretto delle amicizie. Subito dopo il suo arrivo, i suoi amici le avevano chiesto cosa volesse visitare: il Duomo, un museo… lei aveva risposto che voleva essere portata a un supermercato. Per quanto stupiti, i suoi ospiti l’avevano accontentata. E là, in mezzo a tante cose che nel suo paese erano introvabili, lei si era sentita inebriata. A un certo punto gli amici, un po’ impazienti, le avevano chiesto di decidersi su cosa acquistare. «Puoi scegliere quello che vuoi», le avevano detto. «Quando ho sentito queste parole: “Tu puoi scegliere”» - raccontava, «sono scoppiata a piangere».

Scelta di fare e scelta di volere

Ma proprio il mutato rapporto con le cose, determinato dal consumismo, solleva un dubbio inquietante sul significato che ha la scelta, così come si realizza abitualmente nella nostra società. Nessun dubbio che le persone possano, molto più che in passato, fare ciò che vogliono. Ma sono anche in grado di decidere cosa volere? Se per “scelta” intendiamo la prima cosa, è chiaro che oggi possiamo scegliere molto più di prima. Se invece intendiamo la seconda, la risposta è assai meno sicura. Non è affatto detto che tanti, quando si comportano in un certo modo perché vogliono farlo, siano stati davvero in grado di scegliere cosa volere. All’allargarsi delle possibilità di fare non sempre corrisponde una maturazione delle capacità di valutare se fare una cosa oppure no, e perché farla. Può accadere così che a scegliere, in realtà, siano i “persuasori occulti” che ci condizionano psicologicamente e ci fanno volere questa o quella cosa. Anzi, a ben vedere, l’aumento delle capacità di pressione delle mode, attraverso i mezzi di comunicazione, ha reso ancora più facile che a decidere ciò che vogliamo non siamo noi, ma quei “persuasori”.
Già Martin Heidegger, nel lontano 1927, faceva presente il problema. Egli definiva “inautentica” la vita della maggior parte delle persone, perché dominata dal “Si” nel senso impersonale. Egli osservava che, quando chiediamo a qualcuno perché parli in un certo modo, la risposta spesso è: «Perché oggi si parla così». E se gli chiediamo perché agisca in un certo modo, risponderà: «Perché oggi ci si comporta così». E così via. A questo punto, però, osserva il filosofo, «ognuno è gli altri e nessuno è se stesso»1. Col risultato che in fondo nessuno ha veramente scelto di volere fare una cosa o l’altra.
Non è solo il problema delle mode. Moltissime persone non si chiedono mai perché vogliono questo o quello. Le scelte che fanno sono tali solo in senso esteriore, riguardano il fare, non il volere. Ma, a questo punto, sono vere scelte?

La grandezza e l’angoscia della scelta

La verità è che scegliere davvero è impegnativo. Se ci limitiamo a seguire il gregge o anche semplicemente gli impulsi del momento, senza porci neppure la domanda sulla possibilità di comportarci diversamente, tutto è automatico e non nascono problemi. Perché «nessuno è se stesso» e il vero soggetto della scelta è la massa. Niente di nuovo accade, quando la si fa, rispetto alla volontà anonima del “Si” già in atto. Perciò, questo tipo di scelta è perfettamente prevedibile e calcolabile, come un qualsiasi fenomeno della natura, e su ciò si basano le indagini di marketing.
Ma se, invece, si sceglie decidendo liberamente cosa volere, allora quella scelta ha una grandezza incommensurabile e ha sempre, oscuramente, qualcosa di drammatico. L’autore che più di ogni altro, forse, ha esplorato questa realtà è Kierkegaard, il fondatore dell’esistenzialismo, a cui perciò ci ispireremo per questa riflessione. Per lui la (vera) scelta è grande e al tempo stesso terribile perché ci mette di fronte alla possibilità: «In un momento qualcosa si presenta come possibile, poi si presenta una nuova possibilità e alla fine queste fantasmagorie si susseguono così rapidamente che tutto sembra possibile; e questo è l’ultimo momento in cui l’individuo tutto intero è diventato esso stesso un miraggio»2.
Perciò la scelta determina dentro di noi, a volte, uno stato d’animo che Kierkegaard chiama «angoscia». Che non è la paura, perché questa ha sempre un motivo preciso – si ha paura di “qualcosa” - , mentre l’angoscia, nascendo dalla pura possibilità, è angoscia di “nulla”.
Il fatto è che lo scegliere di volere una cosa invece che un’altra ci fa essere, per una volta, creatori di ciò che non esisterebbe senza di noi: come minimo, il nostro stesso volere. Anche se non riuscissimo a fare davvero quello che vogliamo, qualcosa di nuovo esiste nell’universo dal momento che noi realizziamo in noi, consapevolmente e liberamente quell’atto di volontà. Perché esso non è il meccanico ripetersi di ciò che tutti vogliono, ma esprime noi stessi, la nostra presa di posizione, unica e irripetibile, davanti a uno dei tanti aut-aut della vita. Nessun essere umano, neppure Dio, potrebbe sostituirci in quel momento.
Per questo, sempre Kierkegaard, in una immaginaria lettera a un amico, parlando della libertà di scegliere scrive: «Questo è il tesoro che intendo lasciare a quelli che amo nel mondo. Se il mio figlioletto fosse adesso nell’età di poter comprendere e fosse giunta la mia ultima ora, gli direi: non ti lascio né sostanze né titoli, né onori; ma so dove giace un tesoro che ti può far più ricco di ogni cosa al mondo, e questo tesoro ti appartiene e di esso non devi ringraziare me (…): questo tesoro è sepolto nel tuo interno, è un aut-aut che rende gli uomini più grandi degli angeli» 3.
Davanti alla scelta siamo soli. Gli altri potranno consigliarci, ma alla fine siamo noi a dover dire la parola decisiva, di cui ci assumiamo la responsabilità, nel bene o nel male. E questa scelta è unica e irripetibile, dicevamo, perché potremo anche cambiare idea e farne subito dopo una opposta, ma questa non annullerà mai la precedente, sarà semplicemente diversa. Né la si può rimandare o eludere, perché anche questo significa scegliere, anche se è scegliere di non scegliere.
E di fatto sono molti a vivere facendo continue scelte sul piano del “fare”, ma senza mai chiedersi cosa vogliono veramente dalla vita e senza impegnarsi a scegliere davvero. Si capisce così la crisi delle “vocazioni”, non solo al sacerdozio o alla vita religiosa, ma anche al matrimonio o all’impegno politico. A fronte di persone che un tempo si davano interamente a cause, giuste o sbagliate che fossero, in cui impegnavano la loro esistenza, oggi prevale la logica del provvisorio, dell’effimero. Si sceglie, appunto, di non scegliere.

La mancanza del soggetto che possa scegliere

Alla base di questa difficoltà di scegliere, però, non sta solo la drammaticità della scelta. Vi è, alla radice, una crisi più profonda del soggetto, di cui la cultura contemporanea è al tempo stesso artefice e testimone. Dopo l’enfatica esaltazione dell’Io da parte della cultura moderna, assistiamo oggi alla sua liquidazione da parte di quella post-moderna. E’ stato Nietzsche – che di questa cultura è considerato il profeta, se non il “padre” – a scrivere che l'io è solo «una favola, una finzione, un gioco di parole»4. Per lui il soggetto umano è solo una maschera che nasconde un flusso caotico di pulsioni senza coerenza. Su questa linea oggi c’è chi, rifacendosi anche agli studi delle neuroscienze, sostiene che l’io altro non è che una società per azioni, per di più a maggioranza variabile.
Una visione analoga emerge da una pagina del famoso antropologo Claude Lévi-Strauss: «Vedo me stesso come il luogo in cui qualcosa accade, ma non v’è nessun “Io” né alcun “me”. Ognuno di noi è una specie di crocicchio ove le cose accadono. Il crocicchio è assolutamente passivo: qualcosa vi accade. Altre cose, egualmente importanti, accadono altrove. Non c’è scelta: è una questione di puro caso»5. Il soggetto diventa il frutto casuale delle sue esperienze, molteplici e frammentarie, incapace di dominarle, anche perché in fondo convinto di doversi identificare con il loro flusso senza direzione.
Per un riscontro sul piano artistico, basta confrontare il ritratto di un pittore del Rinascimento con uno dipinto da Picasso per vedere la differenza: nel primo troveremo una fisionomia compatta, sotto il segno di un’unica, coerente prospettiva spaziale; nel secondo a stento riconosceremo i tratti umani e solo guardando più attentamente ci accorgeremo che i singoli elementi – gli occhi il naso, la bocca - ci sono tutti, ma dispersi e disposti secondo prospettive diverse e contraddittorie.

Le maschere e il volto

Alla radice della incapacità di decidere vi è dunque la difficoltà di essere se stessi. La società del benessere oggi assicura ai giovani una serie di opportunità – settimane bianche, studio delle lingue, attività sportive – ma non li aiuta ad avere – anzi ad essere - un io. Anzi, proprio questa varietà di esperienze, dicevamo finisce per dissolvere il soggetto in esse, dandogli ogni volta una nuova forma, adeguata alla situazione.
Prima ancora di Pirandello, a dire che l’uomo assume maschere sempre diverse che lo disgregano è stato proprio Sören Kierkegaard. Scrivendo a un immaginario interlocutore, a cui rimprovera questa fuga da se stesso, l’autore scrive: «La vita è una mascherata, tu dici, e questo è per te fonte inesauribile di divertimento, e sei così abile che ancora non è riuscito a nessuno di smascherarti: poiché ogni manifestazione tua è sempre un inganno; solo in questo modo tu puoi respirare e far sì che la gente non si serri intorno a te e ostacoli la tua respirazione. In questo sta la tua attività, nel mantenere il tuo nascondiglio, e questo ti riesce, perché la tua maschera è la più misteriosa di tutte; infatti non sei nulla, e sei sempre soltanto in relazione agli altri, e ciò che tu sei lo sei soltanto per questa relazione».
Ma, continua l’autore, questo gioco è mortale per chi vi si abbandona: «Non sai che giungerà l'ora della mezzanotte in cui ognuno dovrà smascherarsi? Credi che si possa sempre scherzare con la vita? Credi che si possa di nascosto sgaiattolar via un po' prima della mezzanotte per sfuggirla? Non inorridisci a questo pensiero? Nella vita ho visto persone che tradirono tanto a lungo gli altri che alla fine il loro vero essere non poteva più manifestarsi; ho visto persone, che per tanto tempo giocarono a nascondersi, che alla fine in essi la pazzia ributtantemente mostrava agli altri quei segreti pensieri che essi fino ad allora avevano tenuti orgogliosamente celati. O puoi pensare qualche cosa di più terribile di ciò, che alla fine il tuo essere si disfi in una molteplicità, che tu veramente divenga più esseri, divenga una legione come gli infelici esseri demoniaci, e che così tu perda ciò che è più intimo, più sacro nell'uomo, il potere che lega insieme la personalità?»6.

La vita sprecata davanti a Dio

Vi è una dimensione religiosa in questa fuga da se stessi. Perché essa implica la fuga anche da Dio. «Si parla tanto di vite sprecate» - scrive ancora Kierkegaard -: «ma sprecata è soltanto la vita di quell'uomo che così la lasciava passare, ingannato dalle gioie della vita e dalle preoccupazioni, in modo che non diventò mai, con una decisione eterna, consapevole di se stesso come spirito, come “io”; oppure - ed è lo stesso - perché mai si rese conto, poiché non ebbe mai, nel senso più profondo, l'impressione che esiste un Dio e che “egli”, proprio lui, il suo io, sta davanti a questo Dio»7.
La difficoltà di entrare in rapporto con Dio è strettamente legata a quella di relazionarsi a se stessi. Chi dice di non saper pregare forse è una persona che non riesce, in primo luogo, a far pace con la propria vita e ad essere un io.
Ma «di una tal cosa non si fa molto caso nel mondo; perché dell'io il mondo si cura meno di qualsiasi cosa; e il pericolo più grande per un uomo è mostrare di averlo. Il pericolo più grande, quello di perdere se stesso, può nel mondo passare così inosservato; di ogni altra perdita, della perdita di un braccio, di una gamba, di cinque talleri, della moglie, ecc., uno se ne accorge certamente» 8 - di questa no. Anzi forse un uomo oggi «trova troppo rischioso essere se stesso» e per questo preferisce «essere un numero fra gli altri nella folla»9.
Scegliere significa, allora, molto di più che quel poter fare ciò che si vuole da cui siamo partiti. Proprio l’avere ridotto la scelta a un gioco di preferenze ormai costituite, senza spingersi a riflettere sulla loro origine, è il segno della perdita dell’io. E recuperare il valore autentico dello scegliere comporta non tanto una semplice rivendicazione di libertà dai vincoli che ci impediscono di soddisfare i nostri desideri, quanto il riscoprire la radice profonda che può dare ad essi e al loro perseguimento il loro vero significato. Perché solo allora, al di là di ciò che fa, una persona può dire di vivere una vita degna di essere vissuta.


1 M. Heidegger, Essere e tempo, tr. it. P. Chiodi, UTET, Torino 1969, pp.216-217.
2 S. Kierkegaard, La malattia mortale, a c. di C. Fabro, Sansoni, Firenze 1965, p.244.
3 S. Kierkegaard, Aut-Aut, intr. R. Cantoni, tr. it. K. M. Guldbrandsen e R. Cantoni, Mondadori, Milano 1988, p.52.
4 F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, a c. di G. Colli e M. Montinari, tr. it. F. Masini, Mondadori, Milano 1975, p.72.
5 C. Lévi-Strauss, Mito e significato, tr. it. C. Segre, Il Saggiatore, Milano 1980, pp.16-17.
6 S. Kierkegaard, Aut-Aut, cit., pp.35-36. Kierkegaard si riferisce, qui, all'episodio del vangelo di Luca in cui, a Gesù che gli chiede il suo nome, l'indemoniato risponde «Legione» - «perché molti demoni erano entrati in lui» (Lc 8,30).
7 S. Kierkegaard, La malattia mortale, cit., p.233.
8 Ivi, pp.239-240.
9 Ivi, p.241.